Esco dall’albergo e mi incammino lungo la Narva, strada di scorrimento che verso est porta a Kadriorg, Pirita e San Pietroburgo. In direzione opposta a circa dieci minuti a piedi, la città nuova si inchina umilmente a quella vecchia. Le mura sono robuste e ben conservate, come le torri per cui Tallinn è famosa. All’inizio di questo giugno torrido c’è il Festival della Città Vecchia, una settimana di concerti ed eventi con tema “ogni torre ha la sua storia”. Ce ne sono tante, antiche e molto antiche, ma anche moderne, come quelle che ospitano uffici, banche, alberghi. Quelle antiche però rubano la scena, scandendo la silhouette della città. Le guglie di Niguliste e del Palazzo Comunale, distrutte durante l’ultima guerra mondiale, sono state ricostruite rispettando gli originali, e già dalla fine degli anni ’60, in piena fase di stagnazione sotto la dominazione sovietica, il piano regolatore vietava costruzioni che potessero occultare lo skyline. Neitsi ospita il museo della città, ha un caffè con vista panoramica ed è connessa (ops, collegata) a Kiek in de Koek. Le torri sono testimoni silenziosi di tempi perduti, ma vive e aperte al pubblico, tenacemente partecipi della vita quotidiana della città.
Via Viru è la strada più commerciale e “caotica”: pub, negozi di souvenir e paccottiglia, fast food. Ma dura solo poche decine di metri. La piazza del comune è poco più in là, il salotto affollato di turisti su cui si affacciano ristoranti con tavoli all’aperto; anche sotto il sole battente plaid e pelliccette bianche giacciono accasciati sulle sedie. Qualunque vicolo o stradina porta nel posto giusto. Botteghe artigiane, caffè, pasticcerie, cioccolaterie. Non incontrerò neanche un fornaio: pare che il pane, nero di segale, si compri solo al supermercato. Non ci sono insegne chiassose, non c’è traffico né rifiuti per terra. Le case sono restaurate ma l’effetto non è leccato, è meno marzapane dell’Alto Adige. Pensi a delle bomboniere sobrie, con un’eleganza nordica pratica, nitida, ma mai ridondante o barocca.
In una nazione laica anche le chiese sono luoghi di culto razionali, austere, spartane, ad eccezione della chiesa russo ortodossa, dove entro per caso verso le 19:30, con il sole ancora alto in cielo, mentre mi aggiro per Toompea, la città alta. Qui siamo in un altro tempo. I fedeli sono separati dai turisti da una recinzione in legno: sembrano creature intrappolate in una capsula del tempo: le donne sono vestite come negli anni 60-70, tutti hanno un’aria molto triste, grigia, accentuata dal continui segni della croce con un mezzo inchino durante la liturgia. Intorno per contrasto è tutto uno scintillio d’oro e rosso e decorazioni preziose, come in una quinta teatrale, da cui gli officianti entrano ed escono per mostrarsi al pubblico, aprendo e chiudendo porte. Su in alto il coro mette i brividi. Il capo intona con voce gutturale, mi fa pensare alle voci mongole. Poco più in là alcune donne aspettano quella che immagino sia la confessione: salgono alcuni gradini e vanno da una sagoma nera che ci dà le spalle, mentre ascolta parlare fitto fitto una donna.
Qui gli uomini non hanno peccati.
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