Go West, cantano i Pet Shop Boys. per me è sempre stato Go North. Ricordo l’ebbrezza di essere arrivata a Thurso, di fronte alle Orcadi o, più modestamente, a nord di Copenaghen nel castello di Elsinore, e poi a Malmo, e da lì sbagliando treno, aver intravisto foreste verdi in una carrozza svedese rivestita in legno con il distributore dell’acqua. Esotico e così nordico. Sono sull’aereo che ha appena attraccato a un finger nell’aeroporto di Francoforte, in piedi, in attesa di disimbarcare. La coincidenza parte tra 10 minuti. Tallinn è a due ore da qui, i 45 minuti di attesa tra un volo e l’altro mangiati da ritardo in partenza da Fiumicino. Lufthansa mi ha sconvolto con la sua colazione salutare, yogurt e muesli, i posti comodi che sembra di viaggiare in business dopo la qualità da metro nell’ora di punta dei voli low cost. Sguscio via verso il gate A21 e per fortuna lo trovo ancora aperto.
Ce l’ho fatta. Il pranzo non è all’altezza della colazione, due tramezzini mayonesati di cui uno di pane bianco gommoso con fette di pseudoformaggio, l’incubo di ogni nutrizionista. Planiamo su una terra piatta di foreste, laghi e mare. L’aeroporto è colorato, azzurro baltico?, e nuovo. Riconnetto il telefono e subito compare l’icona del free wi-fi. Oltre la porta del gate, la prima cosa che noto è una sala lettura: book crossing per i passeggeri, libri presi e lasciati. L’Estonia è già tutta qui, racchiusa in questa sintetica metafora di accoglienza: byte e pagine stampate, tecnologia avanzata (e gratuita) e tradizioni antiche.
Fuori c’è un caldo assurdo e spiazzante. L’unico handicap di questo viaggio è la valigia completamente sbagliata che mi sono portata dietro. Da meridionale scettica ho fatto la tara ai 23° previsti dal meteo, mentre in realtà di gradi ce ne sono 28 e si muore. Il tassista parla inglese, come tutti, con quegli errori tipici di chi viene da un’altra grammatica, e mi raccomanda di fare attenzione prima di salire su un taxi. La sua tariffa è 65 centesimi a km, ma c’è anche chi chiede 4 o 5 euro. Sta tutto scritto sul finestrino. Se sali, accetti il contratto.
Alla reception l’impiegato parla in russo con alcuni clienti. Mi sembra straordinario che qua, a 300 km da San Pietroburgo, nell’ex URSS, posso usare la valuta di tutti i giorni. Chi l’avrebbe detto trent’anni fa. Ma poi è caduto il muro, è arrivata la glasnot, la perestroika. Dall’URSS si poteva uscire e fu così che a casa ci ritrovammo un ragazzo alto e magro di San Pietroburgo, che sapeva andare bene sui pattini e raccontava barzellette in inglese i cui protagonisti erano Trotsky, Stalin e Lenin. Tutti con l’articolo davanti.
Me lo ricorda il volto di Raissa Gorbaciova nei manifesti che pubblicizzano la mostra di fotografie a lei dedicata alla Portrait Gallery. Due giorni dopo quando vado a vederla in un palazzo sobriamente restaurato nel centro storico, che ti accoglie con uno champagne bar, resto colpita dall’amore di Mikhail per la moglie, un amore tenero e duraturo preso a cazzotti dallo sgomento per quella morte precoce. La foto più commovente è in chiesa, durante il funerale di Raissa, uno scatto in cui l’ex leader sovietico si asciuga le lacrime con un grande fazzoletto bianco mentre la figlia, più composta, sembra consolarlo. Una storia d’amore da cui Raissa emerge come la Jackie Kennedy dell’URSS con una faccia placida da contadina russa siberiana.
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