Mi accompagna un giovane uomo arruffato, un giardiniere dalla carnagione e i capelli biondo-rossicci e il viso irregolare, che ha qualcosa di selvatico nei modi. È tra le persone assunte per recuperare le serre e il frutteto secolare di Fota House. Finora, con le mele che crescono spontanee sono riusciti a fare solo un po’ di sidro per uso strettamente personale, ma è solo l’inizio. Le serre d’epoca restaurate sono un incanto: mi erano piaciute molto quelle di Kylemore, nel giardino vittoriano. Queste di Fota sono simili: il restauro è fedele, le maniglie, gli infissi, le manopole di apertura e chiusura dei vetri, tutto è stato rifatto secondo il modello originale, come i bellissimi pavimenti e i letti-aiuole per le piante. Deve essere un bel lavoro prendersi cura di loro, vederle crescere e fiorire. Credo che per il giovane uomo scapigliato, che ascolto con le orecchie dritte per decifrare quello che dice nel suo eloquio scarno e un po’ ingarbugliato, sia una specie di terapia.
Il progetto è creare un vivaio e vendere al pubblico piante e prodotti. Il giardiniere dovrebbe chiamarsi Dáire, nomen omen, dato che significa “fertile, fruttuoso” e io e arrivo sempre alla stessa conclusione: che sarà anche un lavoro faticoso, spesso all’aperto con il freddo o la pioggia (anche se l’isola di Fota ha il suo microclima), ma i ritmi non sono affannosi, c’è silenzio, si sta in mezzo alle cose vive, che cambiano con le stagioni, e in una giornata come questa c’è un sole glorioso ed è un paradiso.
Avevo una grande voglia di autunno e dopo la mattinata stressante con il ritardo e le chiavi perse, decido di posticipare il pranzo per godermi l’arboreto. Il mio stomaco è inferocito, ma io guardo le sequoie, gli aceri giapponesi e altre piante esotiche e affascinanti. È uno spettacolo di pirotecnica botanica e io mi sento incredibilmente fortunata per questo giorno senza pioggia a fine ottobre in Irlanda: i giardini e l’arboreto di Fota splendono come oro al sole. Ovunque foglie dorate, arancio e rosso vivo. Alberi possenti e solenni come sculture primitive, tortuosi, impressionanti, sembrano animali preistorici. Per terra tappeti di foglie cadute e bagnate, su cui i piedi affondano appena, sprigionando odore di terra e corteccia. Alberi immensi che ti accolgono come ombrelli giganteschi e ti danno riparo, sotto cui vorresti stenderti a guardare i rami che si intrecciano sotto il cielo, come faceva Nick Drake a Tanworth, tronchi che vorresti abbracciare, e dimenticarti tutto il resto. Restare a Fota, zappare, travasare, potare, seminare, veder germogliare e sbocciare.
Mi perdo e arrivo al laghetto preraffaellita, talmente spettacolare che sembra finto (soprattutto con la funzione “autumn colors” della camera androide). Come stare dentro un quadro di Millais. Il mio stomaco ormai mi odia. Forse dovrei cercare delle bacche selvatiche per placarlo. Ritrovo il sentiero e scopro di essere lontana dalla residenza. Quando recupero la Audi rossa fiammante (= speranza di cibo) la macchina d’epoca degli sposi che nel frattempo sono convolati a nozze davanti al cero mortuario blocca il vialetto. Finalmente un invitato la sposta a mano e io guadagno l’uscita. Il navigatore ha ripreso a parlarmi. Arrivo in albergo, entro nel parcheggio sotterraneo e vado a mangiare nella ex farmacia antica.
In mezzo a vecchi flaconi e medicinali, davanti a una parete adibita a distributore automatico di vini al bicchiere erogabili con carta prepagata (un’invenzione che in un primo momento sembra geniale ma che poi manifesta tutta la sua immensa tristezza), finalmente arriva una tazza fumante di butternut squash, lo stesso colore degli alberi d’oro di Fota, e uno scone gigantesco. Placo una fame atavica e occhieggio tre clienti di mezza età che fanno i tonti con la cameriera giovane e carina mentre sorseggiano un rosso spagnolo.
“Come ti chiami?”, le chiede uno.
“Aoife”, risponde lei placida. “Spero che sappiate che cosa significa”.
La Principessa Guerriera della mitologia celtica versa un altro giro di tinto nei loro bicchieri e mi chiede com’era la zuppa.
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