I musei sono le mie chiese. Solo qui ho la percezione del sacro: il sublime della creazione della bellezza. Sono immensamente grata ai musei perché riescono ancora a darmi emozioni – commozione, stupore, grandezza, ammirazione – e insieme alle emozioni quella calma che non provo nella vita quotidiana. La Fondation Beyeler è il museo più bello che io abbia mai visto, e sono fortunata ad averne visti tanti, grandi, piccoli, prestigiosi, sconosciuti. Forse l’ho già detto di un altro museo; se è così, ho cambiato idea.
E’ uno spazio che risponde ai criteri di Calma, Lusso e Voluttà: questo ha chiesto a Renzo Piano Ernst Beyeler, grande mercante d’arte che qui ha alloggiato la sua collezione personale. Un Luna Park per adulti contemporanei, dice Ballard del Guggenheim di Bilbao, ma qui il senso è completamente diverso. E’ un luogo quasi ascetico, puro, concepito per ospitare capolavori. Ad ogni sala ti aspettano sorprese mozzafiato, eppure l’ammirazione non è soverchiante: non mi sento annichilita da tanta bellezza, ma estasiata. E’ già la seconda volta in due giorni che questa città mi regala una sensazione così pacificante, e io comincio a provare un senso di gratitudine.
C’è Mondrian in giallo e blu ed Ellsworth Kelly, grandi forme che sembrano ritagliate da quegli album per collage che avevo da bambina. Nella terza sala, un mobile di Alexander Calder, un quadro e una scultura di Tinguely. Nell’allestimento c’è la grandezza di questo spazio espositivo che è difficile chiamare museo. Si percepisce il grande lavoro dei curatori, che disseminano le opere con parsimonia: solo tre in una grande sala. E’ l’opposto del Prado o della Galleria Borghese. C’è aria, spazio e la luce è perfetta. E’ aperto al mondo, alla natura, con le grandi vetrate che danno sul giardino acquatico e sul parco.
A vederlo da fuori e nelle foto, l’edificio sembra irrilevante. Confesso di aver pensato che Renzo Piano avrebbe potuto sforzarsi un po’ di più. Quando entri, cambi immediatamente idea. La costruzione respira insieme al parco, dove altre opere sono sparse nel verde, ed è stupenda anche in questa giornata di pioggia con sprazzi di sole. L’edificio è costruito su un terreno parallelo alla strada, più lungo che largo, che si estende da nord a sud. Piano ha fatto in modo di sfruttare solo la luce nordica, più morbida e delicata.
Entro nella sala successiva e resto senza fiato. Anche qui solo tre opere, due piccole e una enorme. Proprio sulla soglia, ad accogliere il visitatore, Iris Messagère des Dieux di Rodin, una figura volante, aerea ma carnale: senza la testa e senza un braccio, sospesa in una specie di passo di can can, è la versione plastica dell’Origine del Mondo di Courbet. Poi mi ritrovo da sola a contemplare le Ninfee di Monet che occupano tutta la lunga parete di fronte, seduta al centro di un divano bianco di almeno quattro metri. Quando mi alzo, sulla destra, in posizione defilata, un altro Monet: La Cattedrale di Rouen – Le Portal, Effet du Matin. Mi sale – come un leggero stordimento – l’effetto esilarante di sentirsi dentro un libro di storia dell’arte. Ci sono i dettagli a riportarmi al presente: dischi di plastica trasparente immersi nell’acqua nel giardino acquatico, producono vibrazioni sulla superficie dell’acqua e sono un’installazione di Philippe Parreno. Me lo spiega uno dei custodi, con cui parlo scivolando dall’inglese al francese all’italiano. A Basilea non sai mai in che lingua ti risponderà la persona a cui rivolgi la parola.
Nella sala successiva c’è Rothko, come i chicchi di caffè quando si annusano i profumi. Un solido azzeramento per poi ricominciare. In quella dopo Balthus e 4 sculture di Giacometti, esposte divinamente: le silhouette filiformi si stagliano sulla grande vetrata e sul parco, prendono vita e camminano nel mondo. Poi una sala Pop Art, con Liechtenstein e Warhol e in quella successiva esplode l’effetto Luna Park. Come se ti dicessero: “Chiudi gli occhi ed esprimi un desiderio. Chi vorresti vedere adesso?” Picasso! Ecco La Bottiglia di Vino e La Povera Dora. Beyeler era amico di Picasso, che ammirava i suoi cataloghi e gli permetteva di scegliere e portarsi via quello che voleva per le sue mostre, e qualcosa glielo regalava pure. Beyeler, per inciso, non era il Barone Heinrich Thyssen-Bornemisza: era figlio di un ferroviere e iniziò lavorando in un negozio di stampe e libri d’antiquariato qui, nella sua città natale.
Non vorrei andare via da questo posto senza scale perché i gradini avrebbero distratto il visitatore, che invece deve essere libero di muoversi come in trance, vagando da una sala all’altra, senza pensare a dove mettere i piedi, che alla fine da soli lo riporteranno a casa. Esco frastornata dai postumi di una sbornia estatica. Qualcuno si è portato via il mio ombrello, ma tanto ha smesso di piovere.
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