All’inizio di Macbeth di Justin Kurzel, un primo piano lascia intravedere un brufolo sul collo di Michael Fassbender. Nelle scene successive, quel brufolo cambia di aspetto. Il trucco non ha cercato di coprirlo, come non copre il neo sulla fronte di Marion Cotillard. L’evoluzione del brufolo funziona da clessidra e rende l’idea di quanto serrata sia l’azione nel dramma. Breve il tempo che il regista e la troupe hanno avuto a disposizione per girare, breve la durata della tragedia, la più corta di Shakespeare: dall’inizio dell’azione passano quattro giorni, poi un tempo imprecisato – qualche settimana forse – e poi altri due giorni (i fatti storici si svolgevano invece nell’arco di diciassette anni). Shakespeare ci dice che è un attimo passare dalla condizione di eroe a quella di pluriomicida e tiranno.
Una tragedia compatta popolata da una quarantina di personaggi. Il regista li sfoltisce, ma ne introduce uno che nell’originale non c’è, se non come riferimento indiretto nelle parole di Lady Macbeth (I have given suck, and know how tender ‘tis is to love the babe that milks me): il figlioletto morto dei protagonisti. Il film non si apre con le tre streghe, ma con un funerale e questo cambia il profilo dei protagonisti, la loro consistenza umana, la nostra predisposizione nei loro confronti. Il film inizia con un atto di riconoscimento e immedesimazione: i Macbeth siamo noi.
Un’altra cosa fa Kurzel: mostra i fatti nella loro ambientazione storica originale, l’inizio dell’XI secolo, che in Scozia è ancora un alto Medioevo. La residenza di Macbeth non è un palazzo sontuoso ma poco più di una tenda. Tutto è spartano, austero, disadorno, barbarico. Gli abiti sono assai modesti e così gli ornamenti, i gioielli, le corone. Tanto che il palazzo reale, più simile a una cattedrale, in confronto appare eccessivo con i suoi enormi spazi e i marmi, ma non per questo più confortevole (è in effetti la Cattedrale di Ely). E’ una Scozia tribale (in cui peraltro era consuetudine che la successione avvenisse per assassinio del predecessore), dove il clima è inclemente, gli spazi immensi (fanno pensare all’Australia del regista), la natura severa e impietosa. “La durezza del mondo di Macbeth fa del paesaggio un personaggio molto reale nel film”, ha detto il regista.
In questa Scozia primitiva i funerali sono pire nella brughiera: sulle palpebre chiuse del cadavere del figlioletto, Macbeth pone due pietre, mentre intorno figure nere come corvi assistono senza lacrime né pianti al rogo. In queste terre selvagge le battaglie sono carneficine corpo a corpo: si sentono i pugnali e le spade trafiggere i corpi, si percepisce la consistenza della carne quando si conficcano e quando le lame vengono estratte il sangue schizza verso lo spettatore. Ogni colpo, ogni freccia è una detonazione, un’esplosione. La battaglia è un’ecatombe che sfinisce fisicamente i guerrieri. Uccidere è faticoso e alla fine della tragedia Macbeth andrà incontro alla sua morte esausto. Quando la battaglia si conclude con la vittoria delle truppe fedeli a Re Duncan, Macbeth e Banquo sono sfiniti. Quello che torna al suo villaggio è un guerriero spossato dalla battaglia e sotto shock. Nessuna meraviglia che soffra di allucinazioni. Novecento anni dopo, è così che si combatteva nella Prima Guerra Mondiale: corpi fatti a pezzi, smembrati (Macbeth taglia la testa a Macdonald), spappolati, ragazzini spediti al fronte, terrorizzati, trucidati. L’orrore.
Macbeth è distrutto fisicamente e psicologicamente, come un soldato colpito da sindrome da stress post-traumatico. Lady Macbeth, nei cui discorsi ricorre la parola “latte” e “allattare”, è una donna a cui è morto il figlio. E’ in questa cornice che tutto accade: due genitori che hanno perso il figlio e non ne avranno altri, un soldato tornato dal fronte sotto shock.
Lady Macbeth di Kurzel non potrebbe essere più diversa da quelli di Verdi, per il quale doveva avere “una voce sgradevole e strisciare sul palcoscenico, con caratteri più da demone che da donna”. Marion Cotillard è di una bellezza angelica, luminosa e naturale (splendidi il trucco, le acconciature e i costumi), così come Michael Fassbender incarna l’eroe perfetto, coraggioso e fedele al suo re. I due sono una coppia vera: si amano, si desiderano e il loro complottare avviene con un interplay palesemente sessuale (l’Eros del Male). E’ solo quando Macbeth, sopraffatto dai traumi di guerra e dal rimorso, precipita in un vortice di efferatezze che Lady Macbeth, la mente lucida e determinata, decide di non seguirlo più e si ritira dal gioco morendo.
Macbeth di Justin Kurzel è tremendamente moderno nel mantenersi fedele all’originale di Shakespeare: una tragedia incentrata sull’antitesi del bello e brutto, del sacro e del demoniaco, del bene e del male. “Fair is foul, and foul is fair”, dicono le streghe all’inizio. “So fair and foul a day I have not seen”, dice Macbeth dopo la battaglia. Anteticamente, lui guadagna quello che Cawdor ha perso, e in battaglia non ha paura di fronte alle “prodigiose immagini di morte” che egli stesso crea. Esattamente ciò che farà anche contro il suo re, Banquo e la famiglia di Macduff.
C’è confusione sulla terra, se dietro un fiore innocente si può nascondere un serpente, se l’eroe leale e coraggioso ha la mente infestata da scorpioni. Re Duncan dice di Cawdor “He was a gentleman on whom I built an absolute trust”, ma da Cawdor è stato tradito. Neanche i messaggi che arrivano dall’aldilà sono chiari: “This supernatural soliciting cannot be ill, cannot be good”, dice Macbeth della profezia. Lui sarà re, ma non i suoi figli, e tutto finisce in un bagno di sangue.
E così, in questo volteggiare di apparenze, guai a credere che il motore dell’azione sia la “volteggiante ambizione” dei protagonisti. Il figlioletto morto li rende come noi, ma anche lo stress da fatica, il trauma, il dolore. Possiamo anche scegliere di pensare che siano gli dei invidiosi a colpire i migliori. Ma il nodo cruciale, ciò che più è difficile accettare del vivere non è tanto la banalità del male, perché i Macbeth ne sono consapevoli, ma la capacità di compiere il male lucidamente e di essere artefici della nostra rovina. E’ come gettare uno sguardo nell’abisso ed essere assaliti dalle vertigini e dalla nausea. Perché se hanno brufoli e nei Michael Fassbender e Marion Cotillard, figuriamoci noi.
Guarda il trailer in versione originale.
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