In questo 2016 Grande Mietitore in cui Yoko Ono ha perso due amici, David Bowie e George Martin, fa più clamore la notizia del suo ricovero in ospedale per una banale influenza che quella del suo 83esimo compleanno o dell’uscita del suo nuovo album. Se Serge Gainsbourg fosse stato ancora vivo nel 2011 e alla stessa età avesse pubblicato un disco simile a Yes, I’m a witch too, probabilmente la critica avrebbe fatto chapeau alla longevità artistica e all’appeal presso le nuove generazioni del suo genio sregolato e dissacratore. Invece Yoko.
Yoko Ono è sempre stata una donna, non bianca, non bella, non povera, non stupida, non compiacente, nemmeno nei confronti della band più grande del mondo, che le donne non le aveva mai trattate bene. Quando incontrò il presunto working class hero dei Fab Four, era già un’artista dell’avanguardia newyorchese, performer, poetessa, videomaker, musicista, cantante. Poi divenne la seconda moglie di John Lennon e per colpa sua i Beatles si sciolsero. Si può considerare a suo modo misura della sua fama, e del perdurante maschilismo, la foto che circola in rete e irride il suo corpo lontanissimo dagli standard imperanti di bellezza femminile: la copertina di Two Virgins in cui lei e John sono nudi, visti da dietro. La didascalia recita: «Quando ti senti triste, pensa alle natiche di Yoko Ono». Una foto che fa scandalo dal 1968.
Più recentemente, nel 2005 l’ha fotografata Albert Watson per un supplemento di moda del New York Magazine. Yoko Ono indossava un paio di shorts, calze nere e tacchi a spillo. Troppo audace per una donna di 72 anni. Così dopo essere stata vittima di razzismo e sessismo, nel nuovo millennio diventa bersaglio di ageism, la discriminazione dell’anziano. Passano dieci anni e forse le cose cambiano, almeno all’estero. Lo scorso febbraio il settimanale NME le dà il Premio all’Ispirazione e le chiede: come ci si sente ad avere 83 anni ed essere favolose? Lei risponde candida: «83, sì. Favolosa, non sono sicura. Ma la mia vita non è cambiata molto. È piuttosto bella». E a proposito dell’invecchiare, aggiunge: «Quando accumuli anni, cominci a diventare più libera e puoi fare tutto quello che ti pare. Quando sei giovane, ti blocchi, ma poi il blocco si dissolve ed è fantastico. Questa è la mia esperienza. L’età fa meraviglie nello sbloccarti».
83, sì. Per alcuni è una colpa esserci arrivata. Ad esempio per chi anni fa creò su Facebook il gruppo «Yoko Ono doveva morire al posto di John Lennon». C’è un sì fin dall’inizio della loro storia: il 7 novembre 1966 lui andò alla Indica Gallery, si arrampicò su una scala e con una lente di ingrandimento lesse quello che lei aveva scritto a piccoli caratteri sul soffitto: Yes. Lennon si sentì sollevato.
C’è un’affermazione nel titolo del nuovo disco Sì, sono una strega, anche, in cui le sue canzoni sono di nuovo affidate all’interpretazione di musicisti, produttori e dj. Da Jack Douglas, il produttore di Double Fantasy, al figlio Sean, Moby, le immancabili Cibo Matto, Death Cab for Cutie, Sparks, tUnE yArDs, Penguin Prison e gli svedesi Miike Snow. Stranamente è proprio il suono disomogeneo e non forzatamente attuale a funzionare. I due episodi più luminosi sono Soul got out of the box di Portugal, the Man, gruppo dell’Alaska che tinge la rilettura alla luce malinconica di Danger Mouse, e il brano di apertura, una nuova versione di Walking on thin ice a cura di Danny Tenaglia, che già l’aveva remixata per il dancefloor nel 2003. È la canzone che John e Yoko finirono di registrare l’8 dicembre 1980: uscirono dallo studio per tornare a casa – Lennon aveva in mano il nastro del mix finale – e sul loro cammino incontrarono Mark Chapman. Nella versione originale Lennon suona la vecchia Rickenbacker 325 che in studio non usava più dalla metà dei 60. Probabilmente fu la sua ultima incisione.
Nella nuova versione, le chitarre di Lennon non ci sono più, la canzone è svuotata: una sottrazione che rende palpabile l’assenza di John. Se già il testo suonava premonitore alla luce degli eventi, la versione scarna solo archi e piano diventa un’elegia per John e gli anni vissuti senza lui. Yoko Ono continua a vivere nel Dakota Building, quando esce di casa passa nel luogo dove John è stato ucciso. Nonostante siano immagini a noi fin troppo familiari dai telegiornali, forse in questi decenni poche volte abbiamo pensato che quello che vale per le vedove di mafia o del terrorismo, lo shock del vedersi ammazzare il marito al proprio fianco tornando una sera a casa dal lavoro, vale anche per un’artista e moglie di una rockstar.
Forse perché continuando a vivere e lavorare anche senza John, Yoko ha dimostrato di essere una strega. Questo le ha permesso di avere finalmente una retrospettiva al MOMA nel 2015, una a Francoforte tre anni fa e una appena inaugurata al MAC di Lione (Yoko Ono, lumière de l’aube fino al 10 luglio), che abbraccia 64 anni di carriera, dalle poesie illustrate scritte nel 1952 alle ultime installazioni. Come ha scritto in un recente tweet: «Ogni fama è infamia, e ogni infamia è fama. Buona fortuna a chi è famoso. Non è facile. Potrebbe spezzarti il cuore».
(pubblicato su Il Manifesto del 23 marzo 2016)