Anche nel piccolo Belgio che un tempo aveva fatto del Congo non il suo impero, ma la colonia privata di Re Leopoldo II, c’è un cuore di tenebra: è il Paese Nero, dove al posto dell’avorio ammassato dal Kurtz conradiano c’è il carbone che ha attirato immigrati da tutta Europa, compresi i nonni friulani di Mélanie De Biasio. Entrambi lavoravano in una delle industrie metallurgiche del Pays Noir. Dismessa da tempo, quella fabbrica è stata riconvertita in studi per artisti e in uno di quegli spazi condivisi lavora anche lei: cantante, flautista di formazione classica che nel 2013 ha pubblicato No Deal.
Registrato in tre giorni come si faceva una volta – piazzando i microfoni con cura maniacale – è un disco essenziale e penetrante, cupo e avvolgente: «34 minuti di vertigine tra il rock libero di Jeff Buckley, la malinconia dei Portishead e i voli dei Talk Talk», secondo la rivista francese Les Inrocks. A dire il vero Mélanie De Biasio è un’interprete più composta e reticente di Buckley e meno melodrammatica di Beth Gibbons. Gilles Peterson se ne innamora e cura la versione remix, chiamando tra gli altri la Cinematic Orchestra che è il suo corrispondente orchestrale ed elettronico. Il 20 maggio è uscito Blackened Cities, un seguito dal formato spiazzante: un’unica suite di 24 minuti. Un viaggio liquido, un vortice lento e caldo, un abisso che anziché farti sprofondare in un maelstrom infernale, ti fa accarezzare le tenebre a volo radente per poi portartene fuori con eleganza non ostentata. Charleroi, dove è nata nel 1978, è il cuore tenebroso che le batte dentro tanto da volerlo sulla copertina del nuovo disco: una wasteland industriale cupa, perfino lugubre, su cui incombe una nube trapassata da raggi di luce.
Il senso del disco e della vita per Mélanie De Biasio è tutto qua, nel connubio ambivalente tra luce e ombra: «Esistiamo per far emergere la luce dalle tenebre. Quello che mi piace della foto di Stephan Vanfleteren è che la bellezza nasce da uno scenario molto duro e cupo. Per me quella foto è una finestra aperta sulla libertà e la bellezza. Quelle fabbriche ora sono chiuse, per cui l’immagine emerge da qualcosa che è morto o sta morendo. Charleroi è una città che ha sofferto molto, ma credo che quella foto rispecchi molte altre città, perché tutte hanno un aspetto annerito. Le città sono piene di energia, buona o cattiva: la parte annerita è il lato oscuro in cui la luce non è ancora emersa. Quando vado a New York, Londra o Parigi, sento un’energia molto vivace che galleggia nell’aria, è molto condensata perché sono metropoli affollate dove tutti cercano la stessa cosa: l’oro, che può essere per ognuno una cosa diversa, ma è quello che tutti cerchiamo. Siamo tutti gold junkies, è il nostro carburante. Per me l’oro è la bellezza della luce: il motivo per cui sono attratta dal lato oscuro è perché è luce che ha bisogno di emergere con cura e amore. Ma a volte anch’io ho paura del buio, come tutti».
La sensazione che si ha ascoltando Blackened Cities è di uscire dal tempo. Quando finisce, è come riemergere e riprendere contatto con la realtà circostante.
Ne sono consapevole, anche se non era questo il mio obiettivo. Questa musica mi parlava, dovevo trovare il modo di esprimerla. Mi piace, mi coinvolge, mi prende: so che è fuori formato, ma dovevo assolutamente darle espressione. È musica fuori dal tempo e dallo spazio: arrivi alla fine del pezzo e non ti sembra che sia già passata quasi mezz’ora, ma è proprio questo che mi ha dato la forza e la convinzione che dovevo condividerla con il mondo.
Una suite di 24 minuti sembra un gesto di sfida verso l’attitudine usa & getta esacerbata dai formati digitali, e la sua unità di partenza, la canzone da 3 minuti.
Io cerco solo di trovare sicurezza in qualcosa in cui credo profondamente. Non mi interessa seguire tendenze che passano, né sfidare la forma canzone o il sistema. Non sono una ribelle, ma non accetto compromessi: se sento che una cosa è vera, autentica, combatto. Non mi interessa adattarmi a uno schema e sono felice di aver trovato una label che crede in un progetto così improbabile.
Che cosa avevi in mano quando sei entrata in studio per registrare Blackened Cities?
Avevo una canzone di tre minuti che ho fatto ascoltare ai miei musicisti: due chitarre, un beat, le liriche e la melodia. Poi ho detto: adesso è come se fossimo in concerto, partiamo da quella canzone per creare una nuova composizione con un’introduzione, uno sviluppo e una conclusione. Quando ho suonato la prima nota, nessuno di noi sapeva dove saremmo andati. Quando lo riascolto sento qualcosa di molto denso: tutti i nostri sensi sono all’erta perché la sfida è fare un lungo viaggio senza sapere come sarà. Blackened Cities è stata creata in una sola traccia, senza mai averla provata prima.
Una sola take?
Sì. In studio ho provato due versioni, ma ho preso la prima.
Tra i social media il tuo preferito è Instagram, che gestisci tu stessa.
Mi piace Instagram perché mi permette di comunicare con le foto e io preferisco le immagini alle parole. Sono molto influenzata da immagini e paesaggi, perciò la mia musica tende ad avere una qualità visiva, cinematografica. A casa non ho la televisione, ma vado al cinema tutte le settimane perché è un’esperienza totale, senza interferenze come la pubblicità e i telegiornali.
Parlaci dei musicisti con cui suoni.
Siamo un collettivo molto flessibile, che cambia a seconda delle situazioni: se suono in una chiesa, non porto il batterista. Al momento siamo sette, ma possiamo arrivare anche a dieci. Suono con loro da oltre quindici anni, abbiamo perfezionato l’intesa, il nostro modo di ascoltarci e fidarci l’uno dell’altro. Cerchiamo indizi, creiamo una cornice al cui interno tutto è aperto. Decidiamo la scaletta mezz’ora prima di salire sul palco, ma è solo uno spunto perché non sappiamo come si svilupperà la performance. Ho le liriche e le melodie, ma ogni volta devono essere reinventate. Magari non vedo il batterista da sei mesi e ci incontriamo solo il giorno del concerto. Ci riconnettiamo durante il soundcheck, che per noi è il momento più importante: mi influenza il posto, l’acustica, l’atmosfera, se è un club o una sala da concerto. Decido come inizieremo un brano – per esempio con il pianoforte – ma non so come gli altri musicisti si uniranno organicamente alla situazione, né ho idea di come suoneremo le altre canzoni. Non è l’improvvisazione del jazz, è una creazione istantanea. Non ci sono assolo nella mia musica, è una costruzione collettiva. Mi interessa più la presenza delle note: è una musica molto semplice, ma molto viva.
È vero che dopo un viaggio in Russia hai perso la voce per un anno?
Sì, potevo parlare ma non cantare ed è stato molto doloroso. Come si dice? Quello che non ti spezza ti dà energia. Se perdi la cosa più importante della tua vita, quando la recuperi cerchi di usarla in altro modo. Ho dovuto ritrovarla, riprendermela con il respiro, imparare a sentirmi a mio agio con il silenzio, capire che è pieno, colorato, è musica, la sua presenza è molto potente. Da allora non ho più forzato la voce. Più che cantare sono una che sussurra.
(pubblicato su Il Manifesto del 10 giugno 2016)
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