Era un giorno piovoso del 1970 nel Cambridgeshire e come al solito la casa di Terry Reid era piena di brasiliani. Il primo ad arrivare era stato Gilberto Gil, che saliva sul treno alla stazione di King’s Cross a Londra, scendeva a Huntingdon e da lì prendeva un taxi fino al cottage del suo amico inglese, conosciuto al Festival dell’Isola di Wight. Poi Gilberto cominciò a portarsi dietro Caetano e un tizio di nome Julio che suonava una cuica con dei clacson di automobili. Poi arrivarono anche le famiglie e con loro il cibo: fuori mashed peas & potatoes, dentro farofa, fagioli, banane e pollo per rifocillare i musicisti che in salotto suonavano Orfeo Negro, il disco preferito del padrone di casa. Quel giorno in particolare uno sconosciuto bussò alla porta. “Ciao, sono Carlos”. Eccone un altro, pensò Terry. “Ciao Carlos, prima di entrare e toglierti le scarpe, prenderesti qualche ciocco di legna?”. “Ma certo”. Carlos prese un paio di pezzi. “No, portane una bracciata”. Carlos obbedì, poi si tolse le scarpe, entrò e si unì agli altri – oltre ai soliti c’era anche David Lindley dei Kaleidoscope. “Una tazza di tè?”, chiese Terry al nuovo arrivato. Gilberto disse: “Tu conosci Carlos, vero? Ascolti sempre i suoi dischi”. “Davvero? – esclamò Carlos – Grazie, sono onorato”. “Carlos?”, chiese Terry. “Sì, Carlos Jobim”, rispose Gilberto. Terry si sentì mancare e si ritirò in cucina per riprendersi. Poi tornò per scusarsi: “Mi dispiace per la legna”. “Ma figurati – disse Carlos – Ne serve altra?”. “Fermo, non ti muovere e suonaci una canzone”.
La vita di Terry Reid è tutta così. Cambiano i decenni, i luoghi, le circostanze, ma gli amici e le storie restano sempre leggendari. Negli ultimi anni, in un piccolo club di Los Angeles gli è capitato di ritrovare qualche collega degli anni ‘60, tra cui uno dei cantanti che ha preso il suo posto. “Avresti potuto avere la mia vita e un sacco di altre cose”, gli ha detto Robert Plant. “Robert non sa che cosa avrei voluto io”, ha commentato Reid. I Rolling Stones e gli Who sono stati tra i pochi a non chiedergli di entrare nel gruppo, come hanno fatto in successione Jimmy Page in procinto di formare i Led Zeppelin, Ritchie Blackmore per i Deep Purple e lo Spencer Davis Group. Così Reid è passato alla storia come l’Uomo delle Occasioni Perse, quando in realtà lui semplicemente aveva altri progetti. Il Fato gli si è anche messo ripetutamente di traverso, ma il rock è come la vita: non sempre la fama e il conto in banca sono proporzionali al talento.
Chi è Terry Reid? Giochiamoci a questo punto la famosa frase che Aretha Franklin pronunciò nel 1968: “In Inghilterra ci sono solo tre cose interessanti: i Beatles, i Rolling Stones e Terry Reid”. L’entusiasmo di Aretha era ben motivato: il soprannome di Terry è Superlungs, Superpolmoni, in un’accezione molto più soul e rhythm’n’blues di Tom Jones. Non è questione di potenza, ma di approccio e temperamento. Reid è nato nel 1949 a Huntingdon, a circa 100 km da Londra, e ha lasciato la scuola a quindici anni per andare in tour con i Rolling Stones insieme al suo secondo gruppo, i Jaywalkers. I suoi compagni di classe non gli hanno creduto finché la tv non ha mostrato le scene di isteria e i disordini che scoppiavano a ogni concerto. Terry pensava che non sarebbe sopravvissuto: tre settimane assordato dalle urla delle ragazzine, senza sentire una nota e a fine serata l’unico imperativo era uscirne vivi in qualsiasi modo. Andò in tour una seconda volta con gli Stones negli Stati Uniti nel ‘69, ma non arrivò fino ad Altamont. Di quell’esperienza ricorda l’incredibile capacità di organizzare party di Keith Richards in ogni città in cui facevano tappa e il fatto che l’unico momento di pace e relax fosse quando era sul palco a suonare. Nel 1970 suona all’Isola di Wight e al primo festival di Glastonbury, ma nel frattempo ha già collezionato due album – Bang, Bang You’re Terry Reid (1968) e Terry Reid (1969) – e due fiaschi commerciali, oltre ad aver già detto tre volte “Preferirei di no” come un ostinato Bartleby del Rock.
Ma il suo grande problema fu aver firmato un contratto con Mickey Most (produttore di successo tra il ‘64 e il ‘69 per Animals, Donovan, Yardbirds, Jeff Beck), che all’epoca equivaleva a iscriversi volontariamente alla servitù della gleba. Per questo anche se Terry non smette di suonare e registrare, il terzo album River esce solo nel 1973, dopo anni di battaglie legali da cui lo salva Ahmet Ertegun dell’Atlantic Records. Purtroppo le canzoni non convincono i discografici e solo oggi quell’album viene apprezzato per l’autentico gioiello che è: un misto di folk, blues, rock, jazz, bossa-nova, soul e samba con Gilberto Gil alle percussioni, David Lindley al violino, le Ikettes ai cori e l’eccellente chitarra di Reid, che finora non abbiamo debitamente elogiato, presentandolo soprattutto come cantante soul-rock. Da gran signore Ertegun strappa il contratto, lascia libero Terry e gli dà una buonuscita di 20mila dollari. Per molti anni fuori catalogo, fortunatamente il disco è stato ristampato quest’anno dalla Light in the Attic come The Other Side of the River, con sei inediti e cinque versioni alternative. La EMI inoltre ha rimesso in circolazione anche i primi due album come Super Lungs, The Complete Studio Recordings 1966–1969, doppio CD che comprende anche le sue primissime incisioni, quelle con Peter Jay & the Jaywalkers e qualche outtake: spettacolare soul-rhythm’n’blues britannico da far luccicare gli occhi ad Aretha.
Nel 1973 Terry Reid è ancora relativamente agli inizi della carriera e non sa che quali altre prove lo aspettano: in quel decennio il Fato assume le sembianze di un paio di case discografiche che falliscono quando l’inchiostro sul contratto non è ancora asciutto, affossando i suoi due album successivi. Come ogni epopea che si rispetti, a volte spunta un cavaliere dall’armatura scintillante pronto a risollevare le sorti dell’eroe in disgrazia. Rientra in scena il gentiluomo Graham Nash, che Reid aveva conosciuto a quattordici anni quando con i Redbeats, il suo primo gruppo, aveva aperto per gli Hollies. I due si ritrovano in California dove entrambi vivono e Nash produce Seed of Memory (1976), un album di folk rock West Coast. Negli anni ‘70 nonostante il successo commerciale continui a girargli alla larga, Reid pubblica un altro disco, Rogue Waves (1979), mentre gli anni ‘80 passano senza incidere un solco. Messa da parte la carriera solista, lavora come session man per Don Henley, Jackson Browne, Bonnie Raitt e solo nel 1991 fa uscire un nuovo album, The Driver, prodotto da Trevor Horn. La title track, scritta per Days of Thunder di Tom Cruise (fra l’altro uno dei suoi film di minor successo) nella pellicola non viene usata, ma perlomeno c’è la cover di Gimme some lovin’. Chiunque a quel punto avrebbe chiesto aiuto perfino a Scientology pur di uscire da un’impasse durata già un quarto di secolo, Reid invece continua a fare quello che ha sempre fatto: suonare, ad esempio con l’ex Rolling Stone Mick Taylor e Brian Auger e dal 2000 in poi in quel piccolo club di Los Angeles, The Joint, dove sul palco ritrova leggende come Roger Daltrey, Donovan, Keith Richards, Eric Burdon. Nel frattempo Rich Kid Blues, che Marianne Faithfull aveva inciso già nel 1971, viene riscoperta da Jack White e i Raconteurs la includono in Consolers of the Lonely (2008). Nel 2012 Rumer interpreta Brave Awakening nell’album Boys Don’t Cry (grande successo in classifica nel Regno Unito), mentre DJ Shadow invita Reid a cantare Listen, un nuovo brano incluso nella raccolta Reconstructed.
Sono solo briciole per l’uomo che avrebbe potuto essere Robert Plant o Ian Gillan e che invece nel 2016 porta le Gibson e la Rickenbacker al banco dei pegni come solo la più grande delle rockstar sconosciute può essere costretta a fare. C’è un documentario in lavorazione che racconta la sua storia, si intitola Superlungs e potrebbe essere per lui quello che Searching for Sugarman è stato per Sixto Rodriguez. Chissà che nel frattempo non si faccia avanti un altro cavaliere a dargli manforte: stavolta potrebbe avere le sembianze di Jack Sparrow, il pirata dei Caraibi. Quest’anno Terry ha collaborato al nuovo album di Joe Perry degli Aerosmith, pubblicato dall’etichetta di Johnny Depp, il quale dovrebbe essere il produttore esecutivo del suo nuovo disco. Se così sarà, speriamo che almeno stavolta il disco abbia la giusta spinta promozionale, in modo che Terry non possa più dire come per gli altri: “I miei album non sono mai usciti, sono scappati!”
(pubblicato su Il Manifesto del 3 gennaio)
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