Timeless, eterna, è l’aggettivo associato più di frequente, a mo’ di attributo omerico, alla voce di Sandy Denny, la «signora» del folk-rock britannico. Ma Sandy era tutt’altro che una signora, tanto insicura e tormentata nella vita quanto padrona della scena quando si sedeva al pianoforte o imbracciava la chitarra e cominciava a cantare. Ancora oggi è una figura di nicchia più che di culto, a dispetto della morte prematura avvenuta nel 1978 a soli 31 anni per un’emorragia cerebrale dopo una caduta dalle scale. Niente «club dei 27» per lei: la «Amy Winehouse del suo tempo» – qualcuno ha provato a presentarla così al pubblico contemporaneo, in modo un po’ goffo, per l’immenso talento unito a un’indole autodistruttiva e alla tragica discesa nella dipendenza da alcol e droghe – non ha conosciuto il successo postumo ottenuto invece da altri, primo tra tutti Nick Drake (ci torneremo più avanti).
Tutti hanno sempre lodato la sua enunciazione cristallina e potente («in lei c’era un hooligan pronto a esplodere», disse Martin Carthy), l’impeccabile fraseggio («stava sempre volutamente dietro il beat, era come guardare qualcuno in bilico su un burrone», la descrisse ammirato Al Stewart agli esordi), la capacità drammatica di abitare le canzoni, tutte qualità forgiate nelle serate open-mic di folk club londinesi come il Troubadour o Les Cousins a metà degli anni Sessanta. Ma, oltre a vantare evidenti doti tecniche, Sandy Denny è stata anche e soprattutto una delle prime e più talentuose cantautrici della scena inglese, in un momento in cui erano pochissime le donne che interpretavano pezzi propri. Ecco perché è diventata un’imprescindibile pietra di paragone per tutte le generazioni di musiciste successive, da Kate Bush a Laura Marling e, oltreoceano, Joanna Newsom e Joan Wasser.
Il suo percorso artistico è strettamente intrecciato alla stagione del folk elettrico nelle isole britanniche. Nel 1968, dopo una brevissima collaborazione con gli Strawbs, entrò a far parte dei Fairport Convention di Richard Thompson, Ashley Hutchings, Iain Matthews, Simon Nicol e Martin Lamble imprimendo con la sua conoscenza del canone dei traditional britannici una svolta decisiva alla direzione musicale della band. Fino ad allora infatti i Fairport si erano ispirati alla psichedelia e ad artisti come Bob Bylan e i Byrds, tanto da essere considerati «il principale gruppo inglese della West Coast». Ma dopo tre album (usciti tutti nel corso del 1969!), tra cui i capolavori Unhalfbricking e Liege and Lief, Sandy Denny era ormai stanca di saccheggiare il canone tradizionale, proprio mentre il bassista Ashley Hutchings, in preda a una febbre archivistica, spingeva in quella direzione. Nella biografia I’ve Always Kept a Unicorn Mick Houghton racconta che Hutchings di ritorno dalla English Folk Dance and Song Society esclamava entusiasta: «Ho appena scoperto questa canzone magnifica», e lei rispondeva: «Be’, la cantavo quando avevo diciassette anni».
Lasciati i Fairport perché non sopportava di stare lontana dal compagno, il cantautore australiano Trevor Lucas, Sandy fondò con lui i Fotheringay, in cui le sue composizioni originali avevano più spazio. Nel 1971, spinta da più parti a inseguire un successo commerciale sempre elusivo, Sandy, pur riluttante, compì il passo decisivo di intraprendere la carriera solistica. Incise così il primo e il più malinconico e musicalmente coeso di quattro album a suo nome, The North Star Grassman and the Ravens, prodotto insieme a Richard Thompson, con John Wood come tecnico del suono. Forse proprio grazie alla produzione tutt’altro che invasiva, il debutto discografico di Sandy Denny la fotografa in una fase di straordinaria intensità, tra lente ballad pianistiche adornate dal delicato interplay della Stratocaster di Thompson. Il working title del disco, scaturito dalle session di quello che avrebbe dovuto essere il secondo album dei Fotheringay, era Slapstick Tragedies, in riferimento alle esilaranti gag delle slapstick comedies di Buster Keaton o di Charlie Chaplin, ma c’era ben poco di divertente nei «metodi della follia, nel pathos e nella tristezza» esplorati nelle canzoni.
Come nella copertina dell’album, Sandy è un’alchimista nella penombra di una polverosa bottega da speziale, pronta a operare la sua magica sintesi tra i temi più cari alla tradizione della Englishness – il passaggio delle stagioni, lo sfondo numinoso della natura e degli elementi, la nostalgia per un Eden inafferrabile – e fantasmi, visioni, enigmi, ritratti scaturiti dal suo paesaggio interiore. Accanto a un unico traditional, il maestoso Blackwaterside, l’ultimo che avrebbe mai registrato, e due cover-riempitivi (Down in the Flood di Bob Dylan e Let’s Jump the Broomstick di Brenda Lee), sono gli otto originali a stabilire il tono drammatico del disco, dominato come gran parte delle sue canzoni migliori da un immaginario acquatico turbolento e spesso cupissimo, sferzato da un gelido vento del nord. Su tutto si impone lo sguardo di Sandy, cresciuta a pane, murder ballads e sea shanties e appassionata della narrativa di Joseph Conrad. Il paesaggio notturno è avvolto in una bruma autunnale in Late November, il cui testo allude a un sogno premonitore che Sandy fece pochi mesi prima dell’ill-fated day, l’incidente stradale in cui fu coinvolto il furgone dei Fairport di ritorno a Londra da un concerto e in cui persero la vita il batterista Martin Lamble e l’allora ragazza di Thompson, Jeannie Franklyn.
L’antico marinaio di The Sea Captain trova la morte nel fiore inquieto dell’oceano, mentre la tensione tra la stabilità della terraferma e l’anarchia del mare aperto (acutamente sottolineata da Rob Young nel suo enciclopedico studio della musica britannica del Novecento, Electric Eden) della title-track diventa specchio delle contraddizioni interiori di Sandy, che invidiava la vita itinerante dei rolling minstrels come Anne Briggs ma detestava la vita on the road a cui la costringevano le tournée. I due ritratti in codice Wretched Wilbur e Next Time Around – il secondo, struggente, è del suo ex, il cantautore americano Jackson C. Frank – sono impreziositi dagli arrangiamenti d’archi di Harry Robinson, reduce dalla collaborazione su River Man di Nick Drake. Completano la tracklist altri tre “crittogrammi”: The Optimist, in cui si mescolano oscuri riferimenti a John Martyn e Joe Boyd, Crazy Lady Blues, affettuoso omaggio alla follia delle sue amiche – una su tutte Linda Thompson e magari, perché no, anche alla propria – e l’incedere marziale dell’inno antibellico John The Gun. Questo nascondino intellettuale e la persistenza degli scheletri narrativi della tradizione sono molto distanti da una scrittura di tipo confessionale. Infatti Sandy Denny non apprezzava i paragoni forse oziosi con Joni Mitchell, dichiarando che nei suoi testi la cantautrice canadese era «un libro aperto» mentre lei non avrebbe mai saputo parlare di sé in modo tanto diretto.
La sua amica Linda Thompson ha detto che Sandy era talmente ipersensibile che sembrava «fosse senza pelle», ed è inevitabile il raffronto con Nick Drake, che a detta della sorella Gabrielle «era nato con una pelle troppo sottile». Erano tanti i punti di contatto tra i due, gioielli del roster della Witchseason/Island e del produttore Joe Boyd, ma rispetto a Drake e alla sua patologica difficoltà a vivere, Sandy era esuberante, eccessiva, allegra, dotata di una risata contagiosa e di un inglesissimo sarcasmo. Ossessionata dal suo aspetto fisico tanto lontano dall’ideale di bellezza femminile androgino della Swinging London, pur ferita dalla leggerezza con cui i giornalisti la definivano «paffuta», riusciva comunque a reagire con ironia. Una sera, vestita come al solito con un lungo abito a fiori comprato in un negozio dell’usato e con una pesante pelliccia, entrò in un locale e notò una ragazza magrissima, elegante, con lunghi e setosi capelli biondi, seduta su un divano. Si avvicinò e le gettò in testa la pelliccia. Quando la ragazza le chiese spiegazioni, Sandy rispose con nonchalance: «Scusa, pensavo fossi un attaccapanni!».
Senso dell’umorismo e creatività, però, non furono sufficienti. Gli ultimi anni della sua esistenza furono segnati dalla mancanza di direzione musicale e di successo commerciale, dalle difficoltà del matrimonio con Lucas, da una maternità tanto desiderata quanto per lei ingestibile, dal fallimento del sogno bucolico di vivere in un piccolo villaggio di campagna, che si tradusse invece in un devastante isolamento. Nel suo necrologio apparso su Rolling Stone nel giugno del 1978 Greil Marcus scriveva che Sandy Denny «non era tanto una cantante folk quanto una cantante che voleva sconfiggere il tempo», alludendo probabilmente al suo brano più famoso, Who Knows Where the Time Goes?, composto quando aveva appena 19 anni. Provate ad ascoltarla in una giornata d’inverno su una spiaggia triste e deserta, con lo sguardo rivolto all’orizzonte: sembrerà anche a voi di non avere più paura del tempo e che l’universo non potrà farvi del male.
Chiara Veltri traduce libri, ascolta molta musica, di tanto in tanto scrive. È stata editor di Arcana e ha collaborato tra gli altri con Pagina 99, il manifesto, Alfabeta2. Tra qualche mese compirà 42 anni e spera finalmente di scoprire la risposta alla domanda sulla vita, l’universo e tutto quanto.
Gli altri dischi del 1971.