L’Edera di Nilla Pizzi è una delle canzoni che mia madre ha sempre cantato con la sua voce bella e intonata. Per me esiste nella versione a cappella; la musica è sempre stata immaginaria, quella che mentalmente aggiungevo alla linea di canto eseguita dall’ugola materna. L’effetto percepito di quella somma arbitraria era una canzone inequivocabilmente kitsch: lo stereotipo della canzone leggera italiana degli anni ’50.
Qualcosa di simile è accaduto anche per altre canzoni che sono invenzioni della mia infanzia, di una memoria cristallizzata in ricordi perlopiù tristi. Un esempio è Ciao amore ciao di Luigi Tenco: quando la ascoltavo da bambina mi turbava in modo devastante, la trovavo di una tristezza soverchiante. E’ una canzone da cui sono sempre scappata. Quando l’ho risentita in un giorno di sole in redazione alla radio, provenire da due monitor di alta qualità, ho pensato che non fosse l’originale ma un arrangiamento successivo, più moderno ma soprattutto più allegro. Quella versione là io non l’avevo mai sentita.
Tutto quello che succede sotto la voce di Tenco nell’incipit, l’andamento quasi grottesco dei fiati, quell’incedere pomposo, non l’avevo registrato. Il ritornello che da piccola mi straziava adesso invece suonava incisivo, incalzante, ma soprattutto la canzone era molto più veloce e suonata di come la ricordassi. Da piccola mi arrivava solo la voce (di nuovo, come se fosse a cappella) e le parole di Tenco esplodevano come detonazioni:
Non avere un soldo neppure per tornare!
E quella solita strada bianca come il sale la vedevo davanti a me, sterrata, polverosa, sotto un sole cocente – un mix tra Tenco e gli spaghetti western di Sergio Leone (anche quelli mi hanno lasciato un segno indelebile tanto che nemmeno da adulta li rivedo volentieri) – mentre il protagonista arrancava solo, senza neppure i soldi per tornare. Mi faceva salire un’angoscia insostenibile. Invece è una canzone pop. Quando per caso ho guardato sotto al letto, mi sono accorta che i mostri non c’erano.
Ma torniamo a Nilla Pizzi.
Qualche mese fa ho accompagnato mia madre al Day Hospital per un piccolo intervento ambulatoriale. L’infermiere giovane e affabile ci ha spiegato la procedura e poi, dopo le domande di routine, ha chiesto a mia madre:
“Qual è il suo cantante preferito?”
Presa alla sprovvista, mia madre ha esitato. Così ho risposto io al posto suo:
“Nilla Pizzi!”
“Nilla Pizzi?”, ha ripetuto l’infermiere per certezza. Aveva all’incirca una trentina di anni, si era appena sposato e aspettava il primo figlio: la Regina non la conosceva proprio, ma fiducioso si è alzato, è andato al computer, ha cliccato sulla finestra di Spotify e ha digitato quelle quattro sillabe. Così, mentre mia madre era distesa sul letto, con il camice verde di carta e la cuffia in testa, nella sala suonava a volume piuttosto alto la voce di Nilla Pizzi, un’intera selezione che ha incluso anche Papaveri e Papere. Mia madre ascoltava divertita e incredula mentre io assistevo a una scena che sembrava una versione in acido e al rallentatore di Grey’s Anatomy.
Quando è partita L’Edera è stata una rivelazione: il pizzicato iniziale, i cori vagamente spettrali mi ricordano una colonna sonora di Georges Auric, la voce elegante e misurata (era mia madre che la strillava troppo) su un tempo ondeggiante di bolero, un gorgheggio di sax, il vibrafono, l’arpa. Un arrangiamento squisito. Ci credo che non vinse Sanremo: la Regina arrivò seconda e vinse uno lo strabordante Modugno.
Quel giorno al Day Hospital si è sbriciolato un falso mito musicale. Restava però quello testuale, originato anch’esso dall’interpretazione melodrammatica di mia madre. Quell’edera avvinta, quella donna che immaginavo buttata ai piedi dell’uomo, implorante, che gli afferra le caviglie mentre lui cerca di allontanarsi. Forse la trascina anche un po’. Quei dubbi, sicuramente condivisi da mia madre:
Chissà se mi ami o pure no, chi lo può dire?
E ancora:
Son qui, respiro il tuo respiro,
son l’edera legata al tuo cuor…
Quelle donne che non mollano, soffocanti, quelle edere strangolanti e perdenti in confronto ai Mimmo che – si sa – vogliono essere liberi e spiccare il volo. Le radici che zavorrano contrapposte alle ali che decollano verso il blu dipinto di blu.
In effetti. Anche questo però era un mito destinato a crollare, ogni cosa a suo tempo.
Pochi giorni fa ho iniziato a leggere le bozze di Romantic Italia – Di che cosa parliamo quando cantiamo d’amore di Giulia Cavaliere (Minimum Fax), che dalle canzoni anziché farsi terrorizzare come me ha cercato di imparare qualcosa di utile alla sua sopravvivenza sentimentale, a differenza di me. Che cosa ho trovato fra le 80 canzoni che secondo l’autrice hanno avuto una grande importanza nella narrazione del sentimento amoroso italiano? Proprio lei, Nilla e L’Edera. Leggo e allibisco.
“La canzone è la dichiarazione di passione fatta da una donna che non è affatto sicura dell’amore del suo uomo ma che, nonostante questo, non intende rinunciare a lui, anzi sceglie comunque di avere con lui una relazione fisica”. E’ questo che dice:
E tu che spesso fai soffrir tormenti e pene,
sussurrami baciandomi che m’ami ancor.
Sono versi che mi suonano nuovi. Siamo sicuri che mia madre li cantasse?
“Non ingannino, insomma, la scrittura artificiosa e le interpretazioni che vogliono il brano esemplare nel definire un maschilismo dove la donna è sminuita, rappresentata come immobile e legata all’uomo – conclude l’autrice – Nell’«Edera» la donna sceglie e quel «voglio offrirti con l’anima / senza nulla mai chiedere» non è che la deflagrazione, ancora nella forma figlia del melodramma, di un desiderio incondizionato e non, necessariamente, soggiogato”.
E adesso chi glielo dice a mia madre?
“Giuliaaa!”