Leggi la prima parte e la seconda.
In conclusione, per riprendere e annodare tutti i fili che legano musica e abbandono, la musica si presta molto bene all’educazione sentimentale e al discorso sull’abbandono nelle relazioni. Insegna ad accettare la non rinnovabilità dell’esperienza, la non replicabilità assoluta e quindi la fine delle cose, l’impossibilità del possesso totale e definitivo. Insegna a lasciar andare. Recentemente è stato proprio uno dei miei musicisti preferiti a spiegare come si dice addio, Nick Cave nella newsletter Red Hand Files:
Raccogliamo il coraggio per capire che dire addio è un atto di apprezzamento per il passato da cui siamo andati avanti, e un preludio al nuovo che, con il tempo, richiederà il suo addio, e mentre si continua a crescere, ci saranno altri addii, ciascuno una prova per l’addio finale, il più prezioso di tutti.
Il modo di dire addio è voltarsi a guardare il passato e somministrare la parola come un’offerta di gratitudine e come gesto di guarigione e misericordia, e semplicemente dirlo. Addio.
Per il musicista, la performance non è mai esattamente replicabile, non la possiede in modo definitivo. Quando si spegne l’ultima nota del concerto perfetto, sa con orrore all’inizio, e con saggezza in seguito, che domani non sarà lo stesso concerto.
Dobbiamo allora accettare il cambiamento, la crisi, la difficoltà, l’impossibile. Come il musicista davanti a uno spartito tecnicamente al di sopra delle sue possibilità: la storia è piena di musicisti che hanno rifiutato concerti scritti per loro e hanno detto “preferirei di no”. Ci sono cose che non sapremo mai fare o che non potremo mai avere e dobbiamo accettarlo. Allo stesso tempo esiste la possibilità che qualcosa di nuovo, che ancora non conosciamo, possa essere migliore di quello che abbiamo appena ascoltato o appena perso.
Ci sono tante cose che l’esperienza musicale ci può insegnare nel suo essere effimera, non esattamente replicabile, variabile, e nel suo poter abbracciare la dimensione più profana e quella più spirituale. Sempre ci chiede apertura, disponibilità, fiducia in sé e nell’altro. C’è la dimensione collettiva della fruizione. Anche se oggi l’ascolto della musica è molto esclusivo, isolata – lo è da quando è stato inventato il Walkman negli anni 80 – e frammentario – da quando esiste Spotify – rimane la dimensione corale di esperienza di gruppo.
E’ un’esperienza terapeutica (bagno di gong, musicoterapia), e infine un’altra cosa che si può insegnare attraverso la musica è non avere pregiudizi. Forse la mia missione è predicare la necessità di abbandonare i pregiudizi musicali.
Qualche settimana fa ho ritrovato un 45 giri che portai a scuola quando facemmo una breve sperimentazione con l’insegnante di musica e quella di educazione artistica. L’insegnante ci chiese di portare i dischi che ci piacevano. A casa mia non si ascoltava musica e tantomeno la classica, così io portai il 45 giri di una serie tv che per me era esaltante. Rivedo ancora l’espressione di disapprovazione sulla faccia della professoressa di musica, che non mi ha mai trasmesso la passione per l’ascolto. Un’insegnante di musica dovrebbe sempre capire perché una dodicenne si esalta per la sigla di uno sceneggiato televisivo (all’epoca, oggi sarebbe per qualcos’altro di ugualmente commerciale). La stessa espressione perplessa che si disegna sulle facce degli ascoltatori a casa che non si abbandonano all’esperienza di Sei Gradi.
L‘esperienza artistica è sempre un’esperienza di crescita, di scoperta di sé, di sofferenza e di felicità, perfino di estasi: solo uscendo da sé si può incontrare l’Altro. In fondo la differenza tra abbandonare e abbandonarsi sta in una sillaba che è un pronome riflessivo. Abbandonarsi all’Altro, abbandonare l’Altro è una questione di Sé.