(pubblicato su Il Manifesto del 19 novembre 2019)
La musica è stata la mia compagna di danze per tutta la vita, scrive Vivien Goldman in Revenge of the She-Punks, A Feminist Music History from Poly Styrene to Pussy Riot (Texas University Press, 2019). Nella musica ha svolto ogni lavoro possibile – da primo ufficio stampa di Bob Marley nel Regno Unito a regista, produttrice, giornalista, documentarista e musicista – e le è capitato di ballare perfino durante una sparatoria. Durante un dj set in Giamaica, lei pensava che il rumore dei proiettili fossero i beat di batteria al sintetizzatore e che la gente si buttasse per terra perché ballava il Get Flat, la moda del momento. Il nomignolo di Punk Professor è in realtà un titolo accademico: da anni è professore aggiunto al Clive Davis Institute of Recorded Music della New York University, dove al momento tiene un corso su Fela Kuti. Nel 2016 è uscita la raccolta Resolutionary, brani incisi tra il 1979 e il 1982 con The Flying Lizards, il duo Chantage e da solista, e nel 2020 uscirà il suo primo album, prodotto da Youth dei Killing Joke.
Femminista militante, Goldman spiega che la vendetta nel titolo del libro non è aggressiva ma riparatrice: colmare le lacune e portare in primo piano, davanti al palco – come gridava Kathleen Hanna delle Bikini Kill – le protagoniste di decenni di musica punk, artiste che più degli uomini hanno dovuto lottare per inseguire i loro sogni e ambizioni in un sistema biecamente patriarcale, ancora oggi lontano dalla parità.
Diviso in quattro capitoli tematici – Identità, Denaro, Amore/NonAmore e Protesta – introdotto da relative playlist (tutte raccolte su Spotify), il libro dà voce a donne di varie generazioni e provenienze geografiche: dalle Filippine ai Paesi Baschi, Colombia e Cina, dalla prima ondata di She-Punks (Patti Smith, Ari Up, ma anche Jayne Cortez – attivista, artista spoken word, moglie di Ornette Coleman e madre di Denardo – e Sandra Izsadore, Black Panther responsabile della politicizzazione di Fela Kuti e voce in Upside Down) alle giovani musiciste che oggi incarnano la stessa visione antagonista e combattiva, come le kashmire Praagash, colpite da fatwa nel 2013.
Lo spirito del punk sta nel far succedere le cose a prescindere dal luogo e dagli ostacoli di classe, genere ed etnia, dice Goldman. “Se ci togliessero tutto – elettricità, internet, cellulari – rimarrebbero solo le cose fondamentali. Sono convinta che anche così ci sarebbe sempre un gruppo di donne selvagge, sedute intorno a un fuoco a picchiare con i bastoni sui sassi e cantare ‘Oh Bondage, Up Yours!’”, conclude alla fine del libro.
Perché il connubio tra punk e rock femminile ebbe un tale successo all’epoca ed è ancora così importante?
Il punk è fatto per esprimere rabbia e frustrazione, sentimenti che spesso fanno parte della vita quotidiana delle donne. Inoltre il punk funziona bene per chi ha meno accesso agli strumenti – proprio come molte donne – e la sua etica fai da te incoraggia a imparare mentre si fa, anziché conformarsi all’idea che i dirigenti maschi hanno di ciò che renda commerciale o sostenibile un’artista donna.
Oggi esiste un genere con lo stesso impatto dirompente del punk negli anni ‘70?
Alcuni dei personaggi dirompenti di oggi sono persone super commerciali come Beyoncé! Probabilmente la musica di protesta ha preso una nuova direzione.
Nel libro dedichi diverse pagine a Poly Styrene, l’archetipo della femminista punk. Perché è stata così importante?
Poly Styrene è stata la prima punk nera, o perlomeno di etnia mista, ed era per molti aspetti una visionaria: progressista, acuta, profonda, creava hook energici, intelligenti. Pensava a questioni di più ampia portata come l’ecologia e l’identità, e artisticamente, politicamente e socialmente era davvero molto avanti. Era non convenzionale in modo audace, ma come molte pioniere ha pagato un prezzo: per un periodo fu fatta ricoverare in un ospedale psichiatrico, ma poi trovò rifugio nel movimento Hare Krishna.
La sorellanza salva, scrivi nel libro, enfatizzando l’importanza di valori femminili come il prendersi cura e fare rete. Forse un aspetto meno noto del punk, sinonimo di rottura dei valori tradizionali.
Lo spirito comunitario del punk e il suo aspetto di condivisione, lo spirito degli squat non conformisti e degli spazi comuni conquistati è altrettanto potente della negatività percepita all’interno dell’etica punk, è l’altro lato della medaglia del nichilismo.
Che ne pensi della politica del 50-50 già applicata quest’anno dal Primavera Sound di Barcellona, a cui molti altri festival musicali hanno promesso di aderire entro il 2022?
E’ una misura audace e interessante per rimediare agli squilibri esistenti. Generalmente sono più per la flessibilità inclusiva che per una formula rigida. Tuttavia la discriminazione nei confronti delle artiste è un fatto incontrovertibile, bisogna rimediare ai lunghi decenni in cui le donne sono state sminuite e ignorate da un’industria gestita da un sistema patriarcale. Così tante carriere di donne sono state interrotte, così tante voci sono andate perdute da quando è nata l’industria discografica! Speriamo che spinti dal loro idealismo gli organizzatori dei festival riescano a trovare una fantastica schiera di musiciste.
Tu sei anche l’autrice di un classico del rock alternativo, Launderette (1981). Come nacque quella canzone?
Ho fatto un’improvvisazione freeform su una linea di basso di George Oban degli Aswad, gruppo reggae inglese, nella sua stanza a Lancaster Road, dove viveva anche Joe Strummer. L’abbiamo messa su cassetta e l’ho fatta sentire a John Lydon, con cui passavo un sacco di tempo ad ascoltare reggae. John la trovò divertente, così mi invitò a registrarla durante i tempi morti delle sedute di registrazione di Flowers of Romance. Steve Beresford che suona il piano giocattolo faceva parte dei Flying Lizards, il violino lo suona Vicki Aspinall delle mie amiche Raincoats. Anche Robert Wyatt era un amico, prima ancora che scrivessi di lui per la stampa musicale. La produzione è mia, di John Lydon e Leith Levene, che suona anche la chitarra. E’ una canzone che ancora oggi non ha perso il suo fascino: The Deuce, la serie della HBO, l’ha usata nel penultimo episodio della terza stagione.