Alla fine dell’ultima replica de L’Uomo Calamita, sul palco del Teatro Vascello a Roma, davanti a un pubblico con molti bambini, i protagonisti prendono la parola – lo scrittore, il musicista e l’attore. Giacomo Costantini è ancora bagnato: per l’ultimo numero alla Houdini è entrato ammanettato e a testa in giù in un acquario, solo per uscirne magicamente dopo tre minuti. Anche lui ha una figlia, come la voce narrante della storia che racconta di un circo clandestino e antifascista durante la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine la bimba muore, per il freddo, si dice, ma forse anche perché il padre non l’ha abbracciata abbastanza. E quindi abbracciamoci di più, dice l’Uomo Calamita che di sicuro ha un abbraccio magnetico (soprattutto se sei vestita di lamé). Applausi convinti. Poi, senza abbracciarci, tutti corriamo a comprare magliette, cd, libri dello spettacolo (bellissimo).
Che tremenda e potente forma di comunicazione fisica ed emotiva è un abbraccio. Penso agli abbracci scambiati con amici e amiche – l’ultima volta l’altra sera insieme ai regali di Natale – e con le persone amate. Agli abbracci di conforto, di saluto, a quelli grondanti tristezza, agli abbracci sereni e a quelli perfetti, gli arti incastrati armoniosamente, l’orecchio sul petto dell’altro, la testa appoggiata sulla spalla, il naso tuffato alla base del collo, tra lo sternocleidomastoideo e la clavicola, le braccia intorno al collo, le braccia sui fianchi, un braccio sul collo e uno sui fianchi. Infinite possibilità di incastro.
Quanti modi hanno le persone di abbracciarsi.
L’abbraccio di mio nipote che mi ha vista triste – he is a big hugger, the little guy – quello di un amico che a sorpresa ha esclamato “ammazza quanto sei tosta, deve essere il pilates!”. L’abbraccio socialista, per la causa, di Martyn Ware dopo la lunga chiacchierata (“Let’s give ourselves a hug, because we need it”), lo shiatsu hug che la terapista mi ha chiesto alla fine del trattamento come scambio energetico, gli abbracci che ho dato a mia madre, sempre più fragile e piccola, abbracci che servivano più a me, per tenerli per sempre con me, che a lei a cui alla fine dava fastidio perfino che tenessi la mia mano sulla sua.
Abbracci fotogenici: quello di Kate Bush e Peter Gabriel in Don’t give up, quello di Nick Cave e PJ Harvey in Henry Lee, quello alla fine di Colazione da Tiffany.
Abbracci.
Abbracci consolatori, abbracci goffi, abbracci folli e stritolanti che tolgono il respiro, per fondere una cassa toracica dentro l’altra, abbracci ai funerali, davanti agli obitori, nelle corsie di ospedale. Abbracci teneri senza parole dopo aver fatto l’amore. Abbracci di congratulazioni e felicità dopo un esame – quella sera di dicembre con Patrizia quando incredibilmente avevamo passato l’esame di Pilates (non tanto lei, quanto io), abbracci quando la squadra di calcio vince partite importanti, abbracci ai concerti. Abbracci che attraversano oceani, che rompono il ghiaccio e dicono mille volte mille parole. Sentirsi al sicuro dentro un abbraccio. Desiderare che un abbraccio non finisca più. Uscire da un abbraccio a malincuore, perché bisogna andare, anticipare la separazione per non lasciarsi cogliere impreparati.
Abbracci schivati perché sgraditi. Abbracci svogliati.
Biscotti.
Abbracci in cui vorresti avere le braccia più lunghe per cingere meglio l’altra persona.
Abbracci che non sono propriamente abbracci, come il verbo francese embrasser che significa baciare, perché baiser significa scopare. La gaffe dell’alunna che somigliava a Monica Vitti davanti a tutta la classe, quando disse a un insegnante je voudrais vous baiser per ringraziarlo di un libro che le aveva trovato in biblioteca.
Abbracci sognati che forse non arriveranno mai.
Il conforto, la pace di un abbraccio. Lunghi abbracci silenziosi mentre si svolgono conversazioni mute. L’abbraccio che da anni vorrei dare a Neil Young come fosse un albero. Abbracci dati ad alberi veri, al monastero di San Miguel de Aralar vicino Pamplona, nel Bosque Pintado, nelle foreste intorno a Briol, nella faggeta di Jenne.
Quanto a lungo si può restare abbracciati è ancora da stabilire.
Quali muscoli usiamo quando abbracciamo? Bicipite, tricipite, deltoide, dentato, sottoscapolare, cuffia dei rotatori, piccolo e gran romboide, sovraspinato, trapezio, elevatori della scapola? Il trasverso dell’addome sempre, è il primo muscolo che una persona sana attiva per qualsiasi movimento. Quali sinergici e quali antagonisti?
Altri abbracci verranno? Come saranno?