Bisogna immaginare Sisifo felice, scrive Albert Camus alla fine del suo saggio. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Georgios Xylouris e Jim White lo sapevano ancor prima di leggere Camus: «Noi musicisti viaggiamo molto – dice White – ogni concerto deve essere bello altrimenti hai sprecato la giornata». «Bisogna trovare il modo di cantare in modo diverso la stessa canzone», gli fa eco Xylouris, aggiungendo una frase che, per la sua costruzione insolita in inglese, probabilmente è mutuata dal greco: «Non dare infelicità ai tuoi sentimenti».
Mentre cerchiamo un angolo tranquillo nel loro albergo nei pressi di Porta Pia – Roma è l’ultima tappa del tour italiano – White mi confida con fare cospiratore: «È pieno di pellegrini qui!». Durante i successivi cinquanta minuti parliamo di Sisifo, sagre della lumaca, punk, capre, basilico riccio e The Sisypheans, il loro quarto album uscito lo scorso novembre per Drag City.
Georgios Xylouris è cretese, figlio del leggendario suonatore di lira Psarantonis e membro di un clan di musicisti proveniente da Anogeia, un villaggio di pastori nei pressi della caverna dove si dice sia nato Zeus. Suona il liuto cretese, quattro corde doppie di metallo, con tasti, manico lungo, più grande rispetto a quello che si suona nel resto della Grecia. Mentre parliamo suona anche il komboloi, una specie di rosario con funzione di scacciapensieri, i cui schiocchi secchi e tintinnanti accompagnano ritmicamente la chiacchierata. Dei due è il più loquace: un bardo che recita distici millenari e intesse il discorso di miti e leggende della sua terra, dal Minotauro alla scrittura Lineare B.
Jim White è cresciuto a Melbourne che – come altre città australiane – prima dell’avvento di internet era un posto molto isolato, tanto che quell’insularità ha finito per plasmarne il suono. Con Warren Ellis e Mick Turner fa parte dei Dirty Three, da solo è il batterista più concupito dalla scena alt-indie rock. Se gli chiedi perché, non ti sa rispondere: forse è per quel tocco leggero e preciso che PJ Harvey ha paragonato a una danza, o per il suo modo di smantellare una canzone e ricostruirla con dentro le sue parti di batteria, a detta di Will Oldham.
L’amicizia tra i due risale agli anni ‘90, quando Xylouris era emigrato a Melbourne, ma il duo è nato sei anni fa, quando White è andato a trovarlo a Creta. «Quello che mi ha colpito è che la musica, il cibo, la vita sono legati insieme. Le danze, la sagra delle lumache, quella del raki…» Avete una sagra delle lumache?, chiedo a Xylouris. «Abbiamo qualsiasi tipo di sagra – risponde – Sono occasioni per divertirsi e suonare. La festa del pane, delle patate…». «La festa del Paximathia!», aggiunge White. «Il pane secco che si mantiene tutto l’anno – spiega Xylouris – è squisito con pomodori, olio di oliva, feta e origano».
The Sisypheans è un disco spiazzante: litanie avant folk che diventano post rock, una musica ancestrale e contemporanea, fatta di suoni viscerali ed eterei. Dal vivo Xylouris White sono un’esperienza travolgente che lascia euforici ed estasiati. Primordiali e lirici, punk e free jazz, creano atmosfere trance che, come una festa a Creta, possono durare tutta la notte.
Venendo da gruppi più ampi, come cambia la dinamica in duo? «Il dialogo a due è più intenso, entrambi assumiamo ruoli diversi», esordisce Xylouris. «In duo c’è la stessa dinamica di quando suono da solo, è molto speciale. È da tre in poi che la situazione assume una dimensione diversa ed è sempre uguale».
«Ognuno ha cambiato il modo di suonare dell’altro – dice White – Ho avuto un duo in precedenza: l’altro musicista suonava in modo identico ogni sera, era un vicolo cieco. Invece con Georgios prendiamo altre strade e il dialogo prosegue».
«Jim è un musicista unico, originale, mi apre porte dove io posso entrare e io faccio lo stesso con lui. In genere il liuto tiene il ritmo per la lira o il violino che suonano la melodia; a volte si percuote il corpo con il plettro come fosse uno strumento a percussione. Invece io suono anche la melodia e lo stesso fa Jim: suona il ritmo, la melodia e gli accordi, si sentono le armoniche nel suono della sua batteria. È la somma dei nostri ingredienti che fa un pane diverso».
Come si è evoluto il vostro suono? «Il primo album è uscito quando ancora non suonavamo così tanto in concerto – dice White – C’erano meno cantati e i pezzi erano più lunghi». «Il secondo aveva più brani cantati e forse era più rock – prosegue Xylouris – Quando lavoravamo a Goats vedevamo capre dappertutto. Il nostro suono all’epoca era coraggioso come loro, era ατίθασος, come si dice in inglese? Un po’ cattivo, ma non in senso negativo». Digita la parola sul cellulare, poi mostra il display a White che ride: untamed, wild, è il responso del traduttore automatico. «La musica cretese è così: indomita, selvaggia. Black Peak, il secondo album, prende il titolo dalla montagna sopra il mio paese, due cime gemelle in mezzo alle quali si vede l’orizzonte: anche noi abbiamo visto l’orizzonte del nostro suono, perché quello che facciamo ci insegna quello che stiamo cercando. Mother ha suono più maturo, forse poteva essere il primo disco perché era la madre del nostro suono».
Una delle improvvisazioni in concerto inizia con Xylouris che recita versi da Erotocrito, il poema cavalleresco scritto ai primi del XVII secolo. Le liriche di The Sisypheans spesso attingono alla tradizione. «Ci sono migliaia di distici di quindici sillabe che aspettano di essere cantati. Altri versi vengono da poeti contemporanei: a volte il macellaio del paese mi regala dei versi, oppure il signor Leonida mi fa sentire un distico, io prendo il cellulare e lo registro».
«Seguono tutti lo stesso schema, perciò possono essere combinati fra loro – dice White – Spesso chiedo a Georgios di tradurre i versi dal greco e trovo frammenti di frasi di vecchie narrazioni, avanzi da un’altra storia. I dischi spesso sono così: mentre stai facendo un album trovi un reperto, un motivo storico del processo di composizione e sai perché sta là».
«Nel Rizitika c’è un tipo di canzone che si canta nelle regioni montuose a Creta, soprattutto nelle Montagne Bianche nell’area occidentale. È un canto a cappella monofonico, senza armonia, una sola nota cantata da quindici persone, melodie stupende. Dal testo si capisce l’epoca di appartenenza: il periodo veneziano, l’impero ottomano, o prima ancora i pirati, gli arabi. Le canzoni parlano di amore, vita, alberi, mele, uccelli. Quando Jim e io siamo passati per Genova in treno, mi sono ricordato un Rizitiko che la nomina: “Vorrei essere un uccello di Genova, oppure vorrei essere un basilico riccio in un giardino meraviglioso, così una donna bellissima verrà a prendere una delle mie foglie e la odorerà”. Finisce così. Non è stupendo?».
pubblicato su Il Manifesto del 13 marzo 2020