Le probabilità che The Quickening, l’album di Marisa Anderson e Jim White, fosse un omaggio a Star Trek erano in partenza scarse, così come che indicasse il trasferimento della forza vitale di un immortale nell’universo degli highlander. «È il momento in cui si inizia a sentire il movimento fetale, o quello in cui i rami di un albero cominciano a rinverdire all’inizio della primavera», chiarisce Anderson via email da Portland dove vive. Da qualche anno trascorre l’inverno a Città del Messico, dove si è ritrovata con Jim White per incidere The Quickening agli Estudios Noviembres.
Che si tratti di feto o albero, la parola quickening contiene quell’accelerazione che è un altro dei suoi significati possibili. Lo sviluppo di un embrione e la rinascita di una pianta a primavera sono fenomeni che una volta innescati procedono a velocità impressionante. Sarà per questo che l’album inizia di corsa, in medias res, con la batteria di White lanciata come una locomotiva in una pianura desertica e la chitarra elettrica di Anderson che canta vicino a un falò mentre la vede passare. Gathering, il primo brano, ci fa entrare in una stanza dove una conversazione è in pieno svolgimento. C’è un senso di movimento perpetuo nel disco, che a volte si ferma a contemplare gli spazi aperti e la quiete in brani come Unwritten e Diver.
«Jim e io ci siamo seduti e abbiamo iniziato a suonare. Non abbiamo parlato molto prima di cominciare, a parte decidere che non avremmo composto niente prima. È stato un processo in gran parte intuitivo», dice Anderson, che suona la chitarra da quando aveva undici anni (oggi ne ha 49), ha una formazione classica, ha suonato in gruppi country, jazz e band di circo, e nelle sue composizioni unisce blues, jazz, gospel e musica country. La sua è una chitarra “primitiva” che incorpora minimalismo, elettronica, drone music e classica del XX secolo.
La definizione migliore di Jim White, nato a Melbourne nel 1961, l’ha data PJ Harvey: «Se mi chiedessero di descrivere che cosa fa, non direi mai che è un batterista. È una parola che non mi verrebbe neanche in mente. Per me è un mago: quando suona è come se facesse un incantesimo». Chiunque l’abbia visto suonare dal vivo, con i Dirty Three o con Giorgos Xylouris, sa esattamente che cosa intende PJ.
The Quickening è un viaggio, quello che due musicisti ipercinetici come Anderson e White sognano di intraprendere di nuovo in questi mesi di concerti annullati, bloccati una in Oregon, l’altro in Australia. «Sono una grande viaggiatrice – dice Anderson – e spesso registro i suoni di strada mentre cammino: musica, rumori di folla, il canto degli uccelli, le grida dei venditori ambulanti. Ogni luogo ha un tempo e un ritmo unici, determinati dall’architettura, la luce, il clima, l’acqua, il traffico, la flora e la fauna, la gente per strada. A Barcellona ci sono parchi giochi in mezzo ai viali dove anziani e bambini si godono il sole insieme. Questo crea una dinamica particolare, molto diversa da quella di una spiaggia, una via commerciale, una piazza circondata di caffè o una cattedrale. In genere esploro a piedi, mi piace perdermi, farmi disorientare, essere invisibile. È quello che faccio anche nella musica: non voglio sapere che succederà dopo, dove mi trovo esattamente, preferisco farmi guidare dal caso e non avere il controllo della situazione».
«Rispetto ai miei album solisti, in The Quickening avevo meno colori con cui lavorare perché eravamo in Messico e avevo solo una Gibson 339 con pickup Lollar e una chitarra con corde di nylon fatta a Puebla da Ramos Castillo Cortes. In genere registro a casa usandone molte di più. Per questo disco mi interessava più la tessitura che la melodia. Pensavo molto al movimento in opposizione alla stasi e a come renderli in simultanea; pensavo in termini di pulsazione, arco e flusso più che ai diversi tipi di ritmo o alle melodie. Ci sono frammenti melodici, ma sono brevi e più oscuri, a volte la batteria diventa lo strumento melodico e la chitarra quello ritmico. Suonare con un batterista mi ha permesso di estremizzare certe tecniche che non funzionerebbero altrettanto bene in un disco di sola chitarra. Ho potuto suonare più forte e caotico, ma anche più quieto e intimo. Ho creato dei puzzle tecnici e delle equazioni dinamiche: ho pensato in termini di calmo/veloce, calmo/lento, forte/veloce, forte/lento e a ciò che accade quando mischi e abbini questi elementi tra due strumenti. Con questo semplice esercizio si ottengono molte possibilità dinamiche».
Come si può descrivere l’interazione chitarra-batteria? «È una conversazione. Suonare la batteria dipende da un certo grado di slancio e io ho dovuto tenerne conto. Fa molta differenza se la chitarra è elettrica o acustica. Una chitarra acustica ha un sustain limitato, simile alla batteria, si sente l’attacco e il decadimento è molto rapido. Con la chitarra elettrica il sustain è molto più grande e il decadimento più graduale. Questi elementi coinvolgono il senso del tempo delle note suonate e la loro intensità. Sono stata condizionata anche dalla tonalità della batteria. Jim è un batterista molto melodico, e alcuni pezzi sull’album evidenziano questa caratteristica. Volevo lavorare con quell’elemento del suo stile, oltre alla sua capacità di andare a tempo senza bisogno di ancorarsi a un beat regolare».
La tecnica chitarristica di Anderson si basa sul suonare il ritmo e la melodia insieme, tanto che considera il pollice il suo batterista. Con la presenza di White, che fine ha fatto il suo pollice? «È stato difficilissimo! Sono così abituata a svolgere tutti i ruoli con le mani che dovevo continuamente ricordarmi di non dare il ritmo con il pollice. Non volevo suonare la chitarra solista, così mi sono posta una sfida tecnica: mi sono imposta di suonare con una specie di sequenza veloce a quattro dita, in cui il pollice aveva meno il ruolo di àncora ritmica e più quello di un dito che suona una nota bassa. Ho creato un fraseggio simile a nubi e scoppi di note, abbandonando il contrappunto fra pollice e dita che per me è più naturale. È stato come essere una pianista con una mano sola che cerca di suonare poliritmie». (pubblicato su Il Manifesto del 6 giugno 2020)