«Essere a pezzi può essere meraviglioso, purché i pezzi siano perfettamente compiuti», ha detto Kristin Hersh dei Throwing Muses. Una donna che di frantumazioni ne sa qualcosa. Nel 1982 a sedici anni è stata investita da un’auto mentre era in bicicletta. Da quel momento ha sofferto di disturbi psichici erroneamente diagnosticati come schizofrenia e bipolarismo, prima di essere identificati come disturbo da stress post-traumatico e disturbo dissociativo. Hersh ha spiegato spesso nelle interviste che le canzoni la costringevano a scriverle e prendevano forma gradualmente nella sua testa come suoni, sillabe, strumenti musicali e infine parole. Solo di recente è guarita grazie alla EMDR (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), ma per fortuna non ha smesso di comporre. «Durante i tour di Purgatory/Paradise (2013) e Wyatt at the Coyote Palace (2016) non ho scritto canzoni per due o tre anni. Forse pensavo di non esserne più capace perché non avevo più bisogno di quel meccanismo di sopravvivenza. Ovviamente le canzoni che vogliono vivere troveranno sempre il modo di farlo, l’autore non c’entra niente: il suo compito è solo togliersi di mezzo e lasciarle parlare», mi scrive.
Le sue risposte arrivano dopo diverse settimane perché «Kristin è in studio», si giustifica l’ufficio stampa. Del resto dove potrebbe mai essere una stakanovista come lei? In trentacinque anni di carriera, dall’esordio dei Throwing Muses nel 1985, Kristin Hersh è diventata un’icona della musica alternativa, leader di un gruppo di culto che non ha mai fatto niente per esserlo. Autrice, chitarrista, cantante, ferocemente indipendente e allergica alle major, da anni conta su un esercito personale di Strange Angels: fan che la supportano economicamente con diversi piani di finanziamento, dal semplice abbonamento agli studio sponsor e produttori esecutivi. Per una che si è sempre posta in modo antagonista, deve essere stata una soddisfazione veder andare in rovina il music business. «Faccio il lavoro dei miei sogni – risponde – Niente bugie, niente singoli insulsi o servizi fotografici di moda. Farmi sostenere dal mio pubblico è la soluzione perfetta per me. Sono timida, sono una vera chitarrista, sono ossessionata dalla musica al punto da fare così tanti dischi che la mia casa discografica non riesce a starmi dietro. Faccio ammattire la gente con la musica».
La sua discografia vanta una ventina di titoli come solista, con i Throwing Muses (David Narcizo alla batteria e Bernard Georges al basso) e i 50FOOTWAVE (Georges al basso e Rob Ahlers alla batteria). Ha scritto un memoir basato sui suoi diari di adolescente, Rat Girl, da cui verrà tratta una serie tv. Madre a 18 anni, ha sempre portato i suoi figli Dylan, Ryder, Wyatt in tour con sé. I ragazzi non battevano ciglio, salivano su aerei e autobus senza fare domande. Poi è arrivato Bodhi, che invece ha cominciato a chiedere quando avrebbero smesso di andare sempre in giro. Per lui Hersh ha scritto Toby Snax, un libro per bambini, a cui si aggiunge una raccolta di liriche (Nerve Endings: Selected Lyrics) e Non fare stronzate, non morire – Un addio a Vic Chesnutt, dedicato al grande amico con cui ha condiviso dieci anni di tour. Il prossimo invece sarà un libro su come crescere quattro figli on the road. Dove trova il tempo e l’energia per fare così tanti dischi, libri e figli? «Ma io non ho un lavoro vero! Proprio ieri ho consegnato la versione definitiva del nuovo libro. Per cinque anni mi sono svegliata alle tre del mattino e adesso non so più che fare! (ride, ndr)».
Sun Racket, uscito lo scorso settembre, arriva sette anni dopo Purgatory/Paradise. Che è successo nella vita dei Throwing Muses nel frattempo? «Siamo stati due anni in tour per promuovere il disco, che conteneva circa un milione di canzoni (32, per l’esattezza, ndr), poi io ho pubblicato un disco solista epico senza un vero perché (Wyatt at the Coyote Palace) che contiene un altro milione di canzoni (24, ndr) e ha richiesto altri anni di tour. Il tutto senza che nessuno mi dicesse mai di tapparmi la bocca! (ride di nuovo, ndr). Aggiungici la promozione di qualche libro e un tour mondiale e sette anni sono belli che passati».
Come si è materializzato Sun Racket? «Tutti i miei progetti musicali suonano di continuo, anche se non per il pubblico. La musica, in quanto impulso umano spontaneo, non ha niente a che fare con l’industria musicale e molto poco perfino con i concerti. È come la respirazione circolare: le canzoni vanno e vengono, sono rilasciate nell’atmosfera finché non maturano al punto che possiamo lasciarle andare, diventano canzoni che appartengono alla sfera pubblica come colonne sonore altrui. In altre parole, non lo facciamo per essere al centro dell’attenzione, ma per alimentare un’ossessione. Purgatory/Paradise e Sun Racket sono due figli che condividono dei punti in comune ma, come tutti i figli, sono molto diversi se permetti loro di essere se stessi. Quando abbiamo registrato il primo, la nostra estetica era all’insegna della frantumazione. Al disco ci è voluto un po’ per farsi sentire nelle nostre vite e arrivare alle orecchie altrui. Sun Racket ci chiedeva di usare solo due vocabolari sonici divergenti: uno duro, dissonante e roboante, l’altro una musica da carillon delicata con effetti sonori. Ci ha chiesto dieci canzoni, non trenta. Non abbiamo dovuto fare molto, il disco sapeva da sé che cosa fare e ci ha spinti da parte. Suoniamo insieme da trent’anni, ci fidiamo l’uno dell’altro ma ancora di più ci fidiamo della musica. Come genitori di entrambi i dischi, il nostro compito è fare un passo indietro e assicurarci che entrambi siano abbastanza in salute da poter risplendere».
A proposito di figli, come sta la famiglia? «Stiamo tutti bene, ma è come se la vita vera fosse in pausa. Tutti i miei figli hanno perso il lavoro a causa della pandemia e io non posso andare in tour, perciò ognuno cerca di tirare su l’altro quando non può tirare su se stesso». Kristin vive in California perché il figlio minore fa il surfista di professione, ma ha trascorso gran parte dell’estate a registrare a New Orleans. Al momento è in fase di missaggio nel New England, «as beach weather turns to apple weather», aggiunge. Potrebbe essere il verso di una canzone, che poi conclude in modo prosaico e spiazzante: «Trovo interessante la pandemia perché mi sono laureata in immunologia e virologia, ma per i musicisti sono tempi duri».
Prima di lasciarci, Freddie Mercury come è finito dentro Bywater, una delle canzoni di Sun Racket? «Era un bellissimo pesce rosso con dei magnifici baffi, ma gli mancava una pinna. È morto durante una festa a New Orleans. Nessuno aveva il coraggio di buttarlo nello scarico del bagno perché era molto bello, ma in modo piuttosto elaborato. Su un tipo così devi per forza scrivere una canzone». (pubblicato su Il Manifesto del 13 ottobre 2020)