L’Alexandra Palace, o Ally Pally per gli amici, fu aperto al pubblico nel 1873 per dare alla zona nord di Londra un polo culturale e ricreativo, un luogo di fuga e rigenerazione per gli abitanti di una città sempre più sovraffollata. Nello spirito della coscienza sociale vittoriana, il palazzo e il parco che lo circonda avrebbero avuto un ruolo educativo oltre che ludico. Meno di un secolo dopo, però, l’Ally Pally ospitò un grande evento che di vittoriano aveva ben poco. Il 29 aprile 1967 circa diecimila persone, di cui forse la metà sotto acido, si riversarono nella Great Hall per assistere al 14 Hour Technicolor Dream, happening leggendario della Summer of Love: sul palco salirono fra gli altri Soft Machine, Tomorrow, Pretty Things, Pete Townshend, Alexis Korner e i Pink Floyd, che chiusero la kermesse iniziando a suonare verso le 5 del mattino. Luci colorate e palle stroboscopiche illuminavano ogni angolo della sala al cui centro torreggiava uno scivolo a spirale. Da un igloo di plastica Suzy Creamcheese distribuiva spinelli rollati con bucce di banana dal presunto effetto allucinogeno.
Giugno 2020, su Londra e l’Ally Pally incombe una cappa spettrale. La West Hall è deserta: nella semioscurità si apre una porta da cui entra un uomo filiforme dall’andatura dinoccolata. Percorre la sala a grandi passi, come per farsi coraggio, e va incontro al suo destino. All’estremità opposta lo aspetta un magnifico pianoforte a coda. Attraversando quello spazio vuoto per approdare come un naufrago all’isola nera e lucente del Fazioli, Nick Cave mette in scena la condizione dell’artista nel mondo mutilato dalla pandemia. Quando infine posa le mani sulla tastiera, dà inizio a un recital cupo, sostenuto da una tremenda forza di volontà. È l’artista che rivendica il suo ruolo, che non accetta di essere silenziato: reclama il suono, la performance, e lancia un messaggio al pubblico invisibile, presente in un altrove immateriale.
Registrato in un’unica take con due sole camere da Robbie Ryan (direttore della fotografia di La Favorita di Yorgos Lanthimos), tra operatori e tecnici protetti da mascherine e secchi di gel disinfettante sparsi in giro, il film di Idiot Prayer (non ancora arrivato in sala) è una creatura insolita, inquietante e potente. Le stesse sensazioni che si provano ascoltando i ventidue brani che compongono l’album uscito lo scorso 20 novembre.
Nick Cave costruisce una setlist secondo un pantheon personale di esigenze emotive e imprescindibilità: due inediti, Idiot Prayer e Euthanasia (chissà che forma prenderanno in tour o in un disco successivo); tre brani da Ghosteen, a cui affida la chiusura con la commovente Galleon Ship; Girl in Amber da Skeleton Tree, brano straziante dedicato alla moglie Susie; le splendide Jubilee Street e Higgs Boson Blues da Push the Sky Away, momenti eclatanti dal vivo con i Bad Seeds; due canzoni da Your Funeral My Trial, le irrinunciabili Sad Waters e Stranger Than Kindness; una a testa dai due album di Grinderman e da Let love In, The Good Son, Henry’s Dream e Nocturama, e ben cinque da The Boatman’s Call, disco lirico e introspettivo a cui la versione spoglia, voce e pianoforte, calza come un guanto.
Dopo l’intro di Spinning Song a cui segue Idiot Prayer, c’è subito l’accoppiata più emotiva del set, Sad Waters e Brompton Oratory. L’intento originario di dare risalto alle liriche decostruendo le canzoni è pienamente riuscito. Da oltre vent’anni Cave canta «Forlorn and exhausted by the absence of you», riassumendo in pochi versi lo struggimento e lo sfinimento provocati dall’assenza della persona amata. Mischiando sacro e profano secondo un’estetica consolidata, ora spicca ancora di più un dettaglio erotico, reso quasi pornografico dall’ambientazione della canzone nella chiesa del Cuore Immacolato di Maria: «The smell of you still on my hands, as I bring the cup up to my lips». Altrettanto rivelatoria la rilettura di Palaces of Montezuma, tre minuti francamente dimenticabili in un disco minore come il secondo Grinderman, sono trasfigurati e resi memorabili dalla versione Ally Pally.
Ascoltare Idiot Prayer può risultare estenuante, soprattutto senza le immagini, per il contesto scarno e l’approccio austero, senza una battuta o una parola di presentazione. Ma per le canzoni di Nick Cave vale quello che Bob Dylan dice delle sue: sembrano conoscere se stesse e sanno che lui può cantarle, vocalmente e ritmicamente, come meglio crede. Un repertorio classico da decenni, che l’autore non possiede mai in modo definitivo: lo mastica, lo spoglia, lo smonta e restituisce al pubblico nella forma più attuale. Scarnificata, allucinata, dolente e solitaria come il 2020.
(pubblicato su Il Manifesto del 1 dicembre 2020)