Ricordo ancora la prima volta che presi un analgesico a base di oppioidi. Ero in quarta ginnasio e mio padre mi aveva mandata a stare a casa di mia nonna a Roma, a dieci minuti di autobus dal liceo. Avevo crampi addominali per il ciclo. Una delle mie zie mi diede una pasticca colorata. La ricordo dolciastra sulla lingua. La presi, mi misi a letto, e subito dopo fui avvolta da un meraviglioso senso di benessere, di calore e beatitudine. Avevo tredici anni. A tredici anni non si è grandi abbastanza nemmeno per prendere un’aspirina.
La facilità con cui qualche decennio fa si mandavano giù pillole colorate che tra gli ingredienti avevano sostanze dai nomi apparentemente innocui, perfino benevolenti, che oggi fanno raccapricciare, per fortuna appartiene al passato. Che io avessi accesso a quel farmaco dalla confezione giallo crema e marrone scuro è segno dell’avventatezza dei tempi e del potere di big pharma di diffondere come caramelle nelle nostre vite il seme della dipendenza. Non ricordo che la stessa pasticca mi abbia mai fatto di nuovo quell’effetto miracoloso.
Negli Stati Uniti c’è la crisi degli oppioidi, che non è come le guerre tra Occidente e Cina nel 1800. La crisi degli oppioidi è una strage quotidiana: dal 1999 a oggi si contano oltre 500 mila vittime – the bloodshed – dovute all’impennata di decessi causati da overdose per sostanze o farmaci derivati dell’oppio. Un’epidemia che ha costi umani ed economici elevatissimi, tanto che tre delle principali catene di farmacie dovranno pagare 650 milioni di dollari nei prossimi quindici anni (e solo a due contee dell’Ohio!) per compensare i costi sostenuti per combattere l’epidemia e le morti per overdose.
La Purdue Pharma, di proprietà della famiglia Sackler, produce l’OxyContin, un farmaco a base di ossicodone, che ha una potenza pari a quella della morfina. Arthur Sackler, il patriarca, fu un pioniere della pubblicità farmaceutica. L’OxyContin era venduto ai medici come una cura miracolosa per ogni tipo di dolore – da quello più moderato a quello più grave. Veniva prescritto nel post-operatorio anche agli adolescenti. Le madri ricordavano ai figli di prendere una pasticca ogni quattro ore. Dopo l’ossicodone c’è l’eroina. Quelle madri hanno avuto figli in overdose e si sentono corresponsabili della loro morte.
Nonostante fosse a conoscenza dell’abuso esponenziale, la Purdue Pharma si crea un esercito di tossicodipendenti per incrementare il suo fatturato. Trafficanti peggiori dei narcos. «Da quattro arrivai a prenderne diciotto al giorno», dice la fotografa Nan Goldin nel documentario di Laura Poitras All the Beauty and the Bloodshed. Goldin ha fondato P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now) con cui ha organizzato azioni di protesta – flash mob, die-ins – nei musei che accettano generose elargizioni dai Sackler per convincerli a rifiutare i loro soldi e smascherare la loro avidità sanguinaria ammantata di filantropia. La National Portrait Gallery e la TATE, il Louvre, il Guggenheim lo hanno fatto togliendo il nome della famiglia da padiglioni e ale nei loro musei. La bellezza dell’arte – the beauty – comprata con i soldi sporchi di sangue (duecento persone al giorno, si dice nel documentario).
La bellezza è anche quella delle fotografie e dei lavori di Nan Goldin, la cui voce stanca e neutrale accompagna la narrazione, partendo dalla sua famiglia disfunzionale in cui una madre anziché curare se stessa fa ricoverare negli ospedali psichiatrici la figlia maggiore. Da quel trauma familiare scaturisce una storia di creazione artistica («La fotografia è un flash di euforia, mi ha dato una voce», dice nel film), liberazione, vita vissuta fino all’estremo a Boston e New York negli anni Settanta e Ottanta, la Bowery, la grande tribù della controcultura, edonistica, artistica, queer, androgina, marginale, creativa. Una vita che incontra un’altra epidemia catastrofica – quella dell’AIDS – che spazza via una generazione di artisti nell’indifferenza e nel disprezzo del governo americano.
«Nessuno fotografava la sua vita» dice a un certo punto, per spiegare la resistenza incontrata da parte dei galleristi e dei fotografi maschi. Viene da ridere, perché quand’è che ci siamo scattati l’ultimo selfie o ne abbiamo visto uno, un’autoesposizione vacua, effimera, volgare? «In questa società si tengono nascosti i segreti sbagliati», dice Goldin.
Il profitto sul dolore genera furia.
La furia di un’artista può far tremare un impero.