Entzun arren San Fermín zu zaitugu patroi,
zuzendu gure oinarrak entzierru hontan otoi.
«A San Fermín chiediamo, come nostro patrono, di guidarci nell’encierro e darci la sua benedizione». È dal 2009 che nei minuti immediatamente precedenti l’inizio della corsa la preghiera si ripete per tre volte anche in euskera. Chissà se in caso di vittoria della coalizione antisanchista alle prossime elezioni del 23 luglio Vox, con un programma che è un aperto ritorno al franchismo, imporrà l’uso esclusivo del castigliano anche nella fiesta più famosa della penisola iberica. Del resto la Comunità Forale di Navarra vota tradizionalmente a destra, e a Pamplona le ultime amministrative hanno dato come esito una sindaca dell’UPN, il partito conservatore contrario al nazionalismo basco e promotore di un’identità spagnolista. Per questi Sanfermines, che si svolgono durante la campagna elettorale, la consuetudine rimane e la preghiera si chiude con il grido Viva! Gora!
Oggi però tutto è più veloce: non solo la durata dell’encierro (alcuni finiscono in 2 minuti e 20 secondi), ma anche il tempo impiegato per recitare il cántico: se prima durava circa 25 secondi con una cadenza di valzer, oggi è la metà con una scansione affrettata, che si mangia le ultime sillabe, come se tutto cedesse all’impazienza, l’adrenalina, l’ansia di iniziare, finire e portare la pelle a casa. Gran parte dei partecipanti non se ne rende conto, ma quei tre minuti possono costare la vita.
L’ultimo morto risale al 2009. Si chiamava Daniel Jimeno e aveva ventisette anni; grande aficionado, fu incornato dal toro Capuchino nel Callejón, il tratto finale prima di entrare nell’arena, dove il percorso si restringe ad appena tre metri e nell’imbuto si affollano tori e corridori, urtandosi, inciampando, capitombolando uno sull’altro prima di sfociare nella plaza. Il corno di Capuchino si infilò sopra la clavicola sinistra di Daniel e gli tranciò l’aorta e la vena cava, perforando il polmone. Fu la quindicesima vittima nella storia dei Sanfermines a partire dal 1924, quando nella curva della Telefónica la stessa sorte toccò a Esteban Domeño Laborda, un giovane ventiduenne di Sangüesa. È lui il Vicente Gironés di cui scrive Hemingway in Fiesta.
Alle otto in punto parte il primo razzo, si spalanca la porta del recinto e incalzati da un pastore sei tori e sei manzi iniziano la corsa passando sotto la nicchia del patrono nella salita di Santo Domingo. Corrono nel caos, accecati dall’irruenza e dall’inesperienza. I manzi sono gli anziani che guidano i tori – creature possenti di tre anni e circa 600 chili – portandoli verso la «morte nel pomeriggio». Corrono infuriati e spaventati per 850 metri insieme a umani di tutto il mondo, incoscienti spesso ubriachi e corridori professionisti: gli ultimi li riconosci perché nei minuti prima della partenza fanno stretching, si scaldano saltellando, si concentrano e pregano rivolti contro un muro o la barriera, si fanno il segno della croce. Nel fine settimana da duemila diventano tremila: nello spazio ristretto dell’encierro equivale a due o tre persone per metro quadrato.
¡Qué barbaridad!, esclamano i telecronisti commentando la folla impressionante. L’encierro in effetti sembra una calle qualsiasi del Casco Viejo durante la fiesta, quando l’assembramento è impenetrabile e una massa solida bianca e rossa, esaltata da una frenesia contagiosa, ristagna per le vie. Il bianco delle camicie diventa lilla quando dagli otri tradizionali e dai bicchieri di plastica si tira il vino rosso. Qualsiasi pamplonese ti dirà che i vestiti si buttano via a fine giornata, ma per alcuni durante la fiesta le giornate non finiscono mai.
Che barbarità vedere il gioco degli umani che inveiscono contro i tori, li colpiscono con manate anche se è proibito toccarli. I tori che scivolano, cadono, si rialzano e nonostante tutto saltano istintivamente chi finisce per terra. Chi cade deve raggomitolarsi in posizione fetale e restare immobile, aspettando che il toro passi oltre. Alcuni invece, tramortiti dallo scontro, restano distesi lunghi e vengono calpestati da bipedi e quadrupedi. Il bollettino medico quotidiano in genere riporta meno di una decina tra contusioni e traumi maxillo-facciali.
La tecnologia propone analisi e statistiche: l’altezza, la velocità, il battito cardiaco, la distanza percorsa da un giovane corridore atletico. Le trecento telecamere della polizia individuano chi corre con il cellulare in mano (qualcuno indossa una videocamera da testa), trasgredendo il regolamento di sicurezza. Il replay evidenzia i momenti ravvicinati tra le corna e i corridori, gli inciampi, le rovesciate, i volteggi; il computer misura la lunghezza della corna (60 centimetri) e la loro ampiezza (80).
Poi c’è l’indotto turistico: ad esempio i mille balconi che ospitano quattro-cinquemila persone, con biglietti che si aggirano sui 200 euro a testa, guida e piccola colazione comprese. L’alternativa è appollaiarsi sulla barriera o sui muretti fin dalle tre del mattino nei segmenti dove è possibile assistere all’encierro per strada, come in Calle Mercaderes, dove i tori arrivano dopo l’Ayuntamiento e si trovano davanti la curva all’imbocco di Calle Estafeta. I corridori dovrebbero tenere la destra, perché la forza centrifuga spinge i tori a sbattere contro il lato sinistro del vallado, ma un encierro non si corre su una pista di atletica.
Nell’arena entrano prima quei corridori che si sono portati così avanti da non correre affatto con i tori, poi la manada che in genere prosegue dritta ed entra nel recinto, accolta dal boato della folla sugli spalti. A volte però i tori si fermano, si girano e puntano qualcuno. Lungo il percorso c’è una postazione di assistenza medica ogni 50 metri, mentre nell’arena una squadra di chirurghi specializzati è pronta a scongiurare la morte degli umani. Quella dei tori arriva inevitabile nel pomeriggio. (pubblicato su Il Manifesto del 14 luglio 2023)