Una sera degli anni Sessanta in un club di New York, Nina Simone sale sul palco e si siede al pianoforte. Il pubblico continua a chiacchierare. Allora lei si alza dallo sgabello e li apostrofa: «Perché non fate silenzio? Non sapete come ci si comporta? Dite che vi interessano i diritti civili, l’uguaglianza. Se volete gli stessi diritti, fatevi un bagno e mettetevi il deodorante sotto le ascelle». Passano molti anni e molte vicissitudini; nel 1987 Simone torna al festival di Montreux: «Ho sofferto, ma qui davanti a me c’è un Bosendorfer. Vediamo che succede», e attacca una versione di My baby just cares, all’epoca un grande successo grazie alla pubblicità di Chanel. Nina suona un arrangiamento bachiano, sfoggiando il virtuosismo della sua formazione classica frustrata, con un finale sfrenato. Togliendosi un’ultima volta il sudore dalla fronte con il dorso della mano, chiude l’esibizione con un abbellimento perentorio, pronuncia un «buonanotte» imperioso, si alza e se ne va.
Penso al sudore di Nina Simone sul palco e alla provocazione del deodorante come strumento di conquista per i diritti civili, leggendo il saggio di Margo Jefferson intitolato «Diaforesi», il termine medico per sudorazione, incluso in Un lavoro da donne, antologia di scritti sulla musica di autrici e giornaliste curata dalla scrittrice irlandese Sinead Gleeson e da Kim Gordon, ex Sonic Youth (Big Sur, traduzione di Chiara Veltri, introduzione di Claudia Durastanti).
A Louis Armstrong era concesso detergersi teatralmente il sudore con un fazzoletto bianco, scrive Jefferson: il suo è un «sudore di felicità», un «rituale di diaforesi artistica». Invece «le donne nere ambiziose devono stare attente al loro rapporto con il sudore in pubblico»: devi sudare per avere successo, «ma non portarti il sudore fuori dallo spogliatoio». Al massimo puoi traspirare: il sudore di Ella Fitzgerald mentre fa scat, swinga, fa il suo lavoro da donna, «minaccia di ritrascinarla nelle fauci della classe operaia femminile nera», sui marciapiedi di New York, a fare da palo a un bordello o da corriere per le scommesse clandestine.
A questa discriminazione sessuale diaforetica corrisponde una discriminazione generalizzata nella presenza delle donne nel settore musicale: dalle classifiche di vendita ai ruoli dirigenziali nelle case discografiche, alle giurate nei concorsi, le direttrici di festival e d’orchestra, le partecipanti a panel e presentazioni, alle critiche musicali o dj/conduttrici radiofoniche (seppure in un’epoca in cui programmi musicali alla radio non se ne fanno quasi più). Nonostante il gran lavoro svolto dalle donne, la narrazione musicale continua a essere prevalentemente maschile.
Oltre ai bei saggi di Jenn Pelly su Lucinda Williams, di Fatima Bhutto su musica, dittatura ed esilio, di Anne Enright su Laurie Anderson e di Maggie Nelson su Lhasa De Sela (in parallelo autobiografico con L’amica geniale di Elena Ferrante) è molto interessante quello che scrive Sinead Gleason su Wendy Carlos, che «detiene il totale controllo sulla sua produzione, ma ha deciso di non metterla a disposizione del pubblico»: paradossalmente, in un mondo in cui tutta la musica è disponibile all’istante, l’opera di Carlos è inaccessibile per scelta dell’artista, la rende meno visibile e addirittura la mette a rischio di scomparire dall’orizzonte culturale.
Per una musicista che lascia svanire il suo lavoro, milioni di altre grondano sudore per far sentire la propria voce, come la protagonista di But if I ask them di Sis Cunningham, ispirata alla storia di Aunt Molly Jackson: la sua canzone è diventata famosa, ma lei resta povera. Sis Cunningham fu per ventisei anni l’animatrice di Broadside, una fanzine ante litteram che diffondeva canzoni di protesta (nel libro ne parla Liz Pelly nel saggio «Broadside Ballads»). Nell’editoriale del numero 138, che la ritrae in copertina con la fisarmonica, intitolato «Sono stata un’antifascista molto precoce», attribuisce le sue aritmie cardiache alla fatica di convincere i lettori «che il mondo musicale di questo paese, così come il resto dei suoi mezzi di comunicazione, è controllato da porci capitalisti stupidi e analfabeti». Lo diceva all’inizio del 1978 (Donald Trump era amministratore delegato della Trump Organization da sette anni, Rupert Murdoch aveva già iniziato la sua campagna acquisti negli Usa). Nello stesso numero c’era lo spartito di Fight on, sisters, inno femminista di Carol Hanisch, che conteneva già tutte le risposte al backlash di allora e di oggi, e non si faceva illusioni sulla difficoltà della lotta. Bisogna continuare a combattere, sorelle. Per quanto sia avvilente doverlo ribadire nel 2023, la musica è un lavoro da donne come tutti gli altri. (pubblicato su Il manifesto dell’11 aprile 2023)