La notte prima della nostra videochiamata, Elena Setién ha fatto un sogno. Anche se non ci conosciamo, ha sognato la sua imminente intervistatrice. La sua intensa attività onirica produce sogni molto vividi, di cui ricorda ogni dettaglio: «Eri la compagna di un artista e vivevate in una grande casa insieme ad altri artisti. C’ero anch’io, e poi arrivava il gatto».
«Mi mancava il suono del mare».
La famiglia di Elena, di cui fanno parte il compagno danese e i due figli preadolescenti, di recente ha avuto molti pet dramas (la conversazione è in inglese, una lingua neutra che ha scelto per cantare, nonostante sia di madrelingua castigliana e parli anche euskera). La gatta di famiglia è morta lo scorso ottobre; un gatto randagio che avevano accolto ha rifiutato l’adozione e dopo un mese hanno dovuto lasciarlo andare via. «E sono già due gatti persi», commenta. L’ultimo arrivato è un gattino che ha contratto il coronavirus e al momento è ricoverato in un centro veterinario a San Sebastián, la città dove è nata e dove è tornata a vivere con la sua famiglia dopo tredici anni trascorsi a Copenaghen. «Mi mancava il suono del mare. A Copenaghen non si sente, non ci sono maree e onde». Ma le mancava anche la rete parentale di sostegno: «Un modo che i baschi hanno di preservare la loro cultura è curare la famiglia».
Squilla il telefono; è una chiamata importante. «C’è un farmaco che potrebbe funzionare – dice dopo aver parlato con il veterinario – ma in Europa non è stato approvato». Le sorti del gattino restano in sospeso, ma nel sogno arrivava felice nella nostra comune di artisti, con la coda bella dritta.
L’incontro con Glenn Kotche dei Wilco
Gli ultimi dischi di Elena Setién sono usciti per Thrill Jockey. L’amica e collega Colleen (Cécile Schott ) ha recapitato i suoi demo all’etichetta di Chicago, e poi Elena ha insistito finché non l’hanno presa. «Sono molto testarda e quando voglio una cosa non mollo finché non l’ho ottenuta». Si potrebbe calare a mo’ di asso un luogo comune e dire che è la proverbiale resilienza basca, forgiata dalla furia degli elementi. Per mare e per terra qui comanda bastoni. Dalle loro foreste per secoli i baschi hanno costruito navi per le flotte di tutta Europa, ma anche il txistu (flauto) e la txalaparta, uno strumento a percussione che Elena ha fatto conoscere a Glenn Kotche dei Wilco, figura chiave di Moonlit Reveries, il nuovo album in uscita il 26 gennaio. Kotche aveva molto apprezzato Unfamiliar Minds, album del 2022 di Setién; i due si sono conosciuti a Madrid durante il tour europeo dei Wilco.
Ogni sabato sul suo profilo Instagram, Kotche posta A Beat A Week (l’episodio 209 del 6 gennaio era un omaggio a Max Roach): un video con un loop di batteria e percussioni e relative specifiche tecniche. Elena ne ha presi due in prestito e così è nata la loro collaborazione. Kotche non suona su tutte le tracce, ma la sua presenza l’ha incoraggiata a esplorare di più il ritmo come mezzo di espressione. Il primo loop è finito dentro Surfacing, il terzo brano. «La canzone era completamente diversa, più rock. Quando ho finito il disco, mi è sembrato nel complesso troppo dolce; allora per ribalanciarlo ho tolto tutto, ho lasciato solo il ritmo e ho rifatto il brano che adesso è più cupo, affilato e nervoso». Poi è stata la volta di Asking. Per altre tracce Kotche le ha mandato contributi originali e Setién li ha inseriti nelle sue strutture sonore.
La scoperta di Bridget St. John
Elena Setién è diplomata in violino e composizione all’Università del Surrey, poi ha studiato voce e improvvisazione al Rytmisk Musikkonservatorium di Copenhagen che, contrariamente al nome, non è specializzato in percussioni ma in musica rock, pop, jazz, urban, metal ed elettronica. Se nelle canzoni di Moonlit Reveries c’è una maggiore presenza della chitarra rispetto al passato, il merito è di Bridget St. John, che ha scoperto grazie a Steve Gunn. «Mi affascina la calma della sua voce e il registro basso. In un’intervista diceva che la sua voce grossa la imbarazzava perché le sue colleghe cantavano tutte in una tonalità alta. Ha una voce molto vicina al registro della chitarra, si fondono bene insieme, e mi ha spinta a comporre con questo strumento anziché con la tastiera. In questo modo c’è più spazio per la voce».
Elena Setién canta in inglese come forma di escapismo. Da piccola parlava castigliano, i cugini parlavano euskera e lei sentiva il conflitto nel suo «piccolo corpo». Scrivere in inglese significa non dover scegliere tra le due lingue. «Oggi sono molto più integrate: non sono più un fattore di divisione tra la gente, le persone sono più dolci, accoglienti e disponibili, non ci sono più fazioni opposte», mi dice dalla casa materna di Aiete, il quartiere sulle colline di San Sebastián, dove ha allestito anche il suo studio. «È la prima volta che mi autoproduco. Moonlit Reveries è un disco molto onesto, con arrangiamenti essenziali. Lavorando a casa c’è più tempo per trovare il suono a cui aspiri, lo puoi plasmare meglio anche se è low-fi. C’è più profondità, più tempo per arrivare a quello che cerchi». La sua è una musica cantautorale che usa l’improvvisazione e la sperimentazione per tornare a una forma tradizionale contemporanea e personale. La qualità ultraterrena sta nei dettagli – riverberi di clavicembalo e kalimba, effetti – nell’uso della voce limpido e personale, e nei testi evocativi che raccontano esperienze, passaggi, mutamenti.
Folk inconsapevole e sinestesia
Di recente ha fatto un concerto con un gruppo di txistulari (flautisti) accompagnato dai tradizionali tamburi, e si è resa conto che il suo senso ritmico si adatta molto bene a quello di txistu e percussioni. «Quindi c’è qualcosa di profondo nella mia musica che si rifà in modo inconsapevole al folk basco», conclude. Come canta in Asking: «Humming with a nature song/Streaming from the woods/Nothing’s right and nothing’s wrong/It’s a melody you never lose» (Canticchiare una canzone della natura che scorre dai boschi. Niente è giusto e niente è sbagliato, è una melodia che non perdi mai).
Elena Setién non fa sogni vividi solo di notte. A volte anche da sveglia entra in uno stato onirico e visualizza cose mentre suona. Un amico neuropsichiatra le ha detto che potrebbe essere un caso di sinestesia: un senso ne sollecita un altro, per questo mentre suona ha delle impressioni tattili, sente qualcosa di rugginoso, o di sabbioso, o freddo. «È uno strumento che aggiunge dimensione alla musica, e anche negli altri musicisti riconosco l’esperienza multisensoriale». Stavo giusto per dirle che il finale di Strange, un’altra canzone di Moonlit Reveries, mi fa pensare a Linda Perhacs e a Parallelograms. Linda vede i suoni sotto forma di colori, le dico. «Io non sono così brava con i colori», commenta lei.
Mothers, il penultimo brano, l’ha scritto dopo la morte di Mimi Parker dei Low. «Lei era più grande di me, e anche i suoi figli sono più grandi dei miei, ma mi sono immedesimata. Ho pensato: qualche anno ancora e non esserci più per i miei figli! Essere madre e artista è difficile. Devo ricavarmi del tempo per me stessa, altrimenti divento una brutta persona. Gatto e meditazione sono le mie buone vibrazioni». Il testo di Mothers è la soluzione: «Fai dei passi accanto a tuo fratello, ti guardi intorno in cerca di risposte. Sei ancora il mio bambino, ma presto crescerai e diventerai un giovane uomo. Anche le madri devono crescere, come fanno le piante sulla riva di un fiume, mentre osservano l’acqua che corre libera, come un giovane uomo libero, come una giovane donna libera». (pubblicato su Il Manifesto del 21 gennaio 2024)