«Maman est partie». Mentre tutto il mondo si chiede come dire addio a Françoise Hardy, citando il titolo di una delle sue canzoni più famose, è con queste tre parole che Thomas Dutronc ha dato l’annuncio della morte di sua madre. E con una foto in bianco e nero di un Thomas neonato paffuto e di una Françoise raggiante e bellissima, come sempre. Partir, andarsene, è quello che voleva fare da tempo, come ha ribadito nell’ultima intervista rilasciata a Paris Match lo scorso dicembre: «Andarmene nell’altra dimensione il più presto possibile… subito e in maniera rapida, senza dover patire grandi prove, come l’impossibilità di respirare». Era malata da vent’anni. Nel 2004 aveva scoperto di avere un cancro, che dopo fasi di remissione sarebbe tornato più volte e in varie forme. Già nel 2021 aveva invocato il diritto all’eutanasia in Francia, e aveva criticato il Presidente della Repubblica per lo stallo nel dibattito sulla questione. «La maggior parte del tempo vivo in uno stato di sofferenza da incubo», aveva dichiarato a RTL. Non di solo spirito era fatta, dunque, nonostante le apparenze.
Égérie degli anni Sessanta come la coetanea Jane Birkin, scomparsa poco meno di un anno fa, erano due donne simili nella bellezza androgina e abbagliante, entrambe anti Bardot nell’assenza di curve, i grandi occhi chiari e i capelli lunghi e lisci. Jane e Françoise erano, tuttavia, all’opposto nella concezione del proprio ruolo e della vita privata. Se la coppia Birkin-Gainsbourg viveva in pubblico 24 ore al giorno, avida di copertine e titoli eclatanti, nutrendosi della sua forza dirompente nei confronti dei costumi e della moralità comune, Hardy aveva da tempo scelto la riservatezza, una vita lontana dai riflettori.
Era nata il 17 gennaio 1944 sotto l’occupazione tedesca, durante un allarme aereo, ed era cresciuta con una madre single di cui portava il nome. Ragazza malinconica e complessata, trovò rifugio come molti coetanei nei libri e nella musica. Con un piccolo azzardo, potremmo dire citando Lou Reed che anche la vita di Françoise fu salvata dal rock and roll, grazie alle frequenze di Radio Lussemburgo. Molto in anticipo sui tempi, è una chitarra – oggetto ancora esotico in mano a una ragazza nei punk anni Settanta – che vuole imbracciare. Una foto in bianco e nero la ritrae addormentata su un letto alla francese mentre è in tour, accanto a lei il fodero curvaceo dello strumento. È il suono rock della chitarra che agogna e che le viene negato all’epoca di Tous les garçons et les filles. Altro particolare degno di nota: del brano era anche autrice oltre che l’interprete.
La Francia la scopre la sera di domenica 28 ottobre 1962, mentre è in attesa dei risultati del referendum per l’elezione del Presidente della Repubblica. Durante un intervallo musicale, sugli schermi appare una creatura esile e timida, che canta con un fil di voce. Il brano diventa un successo internazionale. I media impazziscono per lei, Paris Match le dà la copertina all’inizio del 1963 e la consacra nuovo idolo musicale. Madame Hardy (non è spontaneo chiamarla Françoise) quella canzone non l’ha mai sopportata perché era «realizzata malissimo». Molti anni dopo su Youtube scoprirà la versione di Carla Bruni e Laurent Vaulzy. L’arrangiamento di quest’ultimo era esattamente quello che avrebbe voluto nel 1962: con delle punteggiature di chitarra elettrica bene in evidenza, alla Apache degli Shadows. E invece le avevano dato delle chitarre blande, per niente risuonanti, «orribili».
Un’altra foto. Londra, aprile 1968. Françoise Hardy incede come una mannequin aliena lungo i giardini dell’Embankment, indossa una tuta metallica di Paco Rabanne chiusa da una lunga zip sul davanti. Accanto a lei un anziano in completo gessato sonnecchia accasciato su una panchina, tramortito dal tiepido sole di mezzogiorno. Il futuro e il trapassato dell’umanità, generazioni che si sfiorano senza incrociare gli sguardi. All’epoca era una star globale, protagonista di film, servizi di moda, tournée in ogni angolo del mondo. Ed era già stanca. Il 1969, l’anno di Comment te dire adieu, firmata da Serge Gainsbourg, è anche l’anno del primo ritiro dalle scene: solo tv e playback. Un altro ritiro arriva nel 1988, quando annuncia che Décalages sarà l’ultimo album. In realtà il suo ultimo lavoro discografico sarà Personne d’autre del 2018.
Una carriera così lunga e densa, che ha abbracciato interessi extramusicali come la grafologia e l’astrologia, è impossibile da riassumere. Non ci soffermeremo nemmeno sulle sue posizioni politiche centriste, a favore dell’aborto ma avversa al femminismo. L’unica causa in cui si riconosceva era l’ecologia. Lascia una Francia pericolosamente in bilico sul baratro dell’estrema destra.
Un’altra istantanea, allora. Una ragazzina che mette un 45 giri sul giradischi. È Le temps de l’amour. La canzone perfetta per evocare la nostalgia dell’infanzia e della preadolescenza, la voce di Hardy fa risuonare i colori e le atmosfere di Wes Anderson. Nel 2012 Moonrise Kingdom la rimette in circolo tra le nuove generazioni, così come anni prima, nei Tenenbaum, Anderson aveva usato Fly di Nick Drake, contribuendo alla sua riscoperta. L’ultima diapositiva è uno scatto immaginario, una collaborazione mai avvenuta. La foto li ritrae insieme in studio, sorridenti. Due creature diafane e schive, due voci eteree per un duetto malinconico riscoperto dopo decenni in un archivio polveroso, su una bobina dimenticata, ma puntualmente ritrovata dalla Light in the Attic. Oggi fra i tanti successi ascolteremmo proprio quello, per un lieto fine postumo, a cinquant’anni dalla morte di Nick, mentre diciamo doucement adieu a Françoise.