“Cara Miss Earhart”, scrive Eleanor Roosevelt il 18 gennaio 1933, “allego la mia licenza di allieva pilota. Il problema adesso è convincere mio marito a farmi prendere lezioni di volo. Le farò sapere se ci riuscirò”. In basso, sotto il testo dattiloscritto e la firma della First Lady, una postilla aggiunta a mano: “Ho parlato con Franklin. Adesso non vuole, ma forse in seguito riuscirò a convincerlo”. Quel sogno sarebbe rimasto tale, ma pochi mesi dopo, in una limpida sera di aprile, le due amiche abbandonarono di soppiatto una cena alla Casa Bianca e, senza nemmeno togliersi l’abito da sera, salirono a bordo di un aereo e decollarono per un volo notturno da Washington, D.C. a Baltimora. Per qualche minuto Amelia lasciò i comandi a Eleanor.
Di donne che vogliono volare è piena la storia – da Sophie Blanchard in mongolfiera a “Queen” Bess Coleman, la prima pilota afrodiscendente e nativa americana. Senza imbarcarci in un compendio dell’aviazione femminile, il succo è che “Il progresso che abbiamo fatto non è abbastanza”, come dice Laurie Anderson pensando al 24 luglio di 87 anni fa. Quel giorno nel Pacifico si persero le tracce del Lockheed Electra 10E con cui Amelia Earhart stava compiendo il giro del mondo. Era la tappa più lunga e il punto di atterraggio era praticamente introvabile: Howland Island, un’isoletta corallina quasi a metà strada tra le Hawaii e l’Australia. Earhart era guidata da un cutter, ma fu tradita dalla stanchezza e dalla tecnologia insufficiente. All’epoca c’erano troppe frequenze radio e lei trasmetteva su quella sbagliata: sentiva la radio del cutter ma non riusciva a vederlo, dal cutter la vedevano ma non riuscivano a sentirla. Fu un collasso della comunicazione, l’impossibilità di stabilire un contatto.
La storia di Amelia Earhart affascina Laurie Anderson da quando era bambina e già narratrice seriale. Tutte le notti inventava storie per la sorella che soffriva di insonnia: insieme immaginavano di prendere un aereo posteggiato in garage e di partire per un’avventura in giro per il mondo. Da tempo Anderson si definisce una storyteller più che una musicista. Anche per Amelia, l’opera dedicata all’aviatrice (uscita per Nonesuch a fine agosto), cercava un arco narrativo, che inevitabilmente doveva chiudersi con uno schianto.
Chi meglio di Laurie Anderson può raccontare una storia così, dato che nella vita si è letteralmente schiantata più volte? A cominciare da quando era bambina e tuffandosi dal trampolino finì sul cemento anziché nella vasca della piscina. Da adulta è sopravvissuta a un incidente aereo in cui morirono diverse persone. Anche se non fu propriamente uno schianto, scese da una delle montagne più alte del mondo priva di sensi, dentro un sacco legato al dorso di un mulo che a furia di salti verticali in due giorni la riportò ad altezze più sopportabili. Big Science, il suo primo album, si apre con l’annuncio di uno schianto: “Good evening, this is your captain, we are about to attempt a crash landing…”
“La cosa che mi ha spinta a scrivere la sua storia”, dice Laurie Anderson, “è un progetto che Amelia Earhart aveva. Se avesse portato a termine quel volo, avrebbe creato un’officina per insegnare alle ragazze a lavorare il legno, il metallo, a costruire motori. Negli anni Trenta le donne cucinavano e pulivano. Avanti veloce di ottantasette anni e quante donne ingegnere ci sono? Non abbastanza. Guardo il mondo del pop, del cinema e mi chiedo: perché non ci sono più donne?” La sento parlare di emancipazione femminile e ricordo un’intervista di una quindicina di anni fa in cui si definiva un’artista, una newyorchese, un’americana e solo in terza o quarta battuta una donna. Anderson sente la morsa del trumpismo erodere i diritti delle donne – “È un uomo che non ama le donne, ci considera stupide” – e questo è il suo modo di intervenire in una delle questioni cruciali del 2024.
Amelia Earhart oggi avrebbe milioni di follower sui social: fotogenica, un fisico da modella, era una blogger ante litteram. Era sposata con il suo addetto stampa a cui spediva telegrammi, teneva un diario personale oltre a quello di bordo, le piaceva comunicare con il mondo ed era molto in contatto con il pubblico femminile. “Signore, voi siete in cucina e io sono nella mia cabina di pilotaggio a tremila metri!”, diceva. Nel disco si sente la sua voce elogiare l’avanzamento della tecnologia, di cui – con quella che oggi appare un’ingenuità – le donne erano all’epoca le maggiori beneficiarie. Ma la sua è anche la storia dell’aviazione americana che entra nella fase bellica. Anderson lo chiama “il lato oscuro” di Amelia Earhart, molto coinvolta nel costruire un aereo nuovo, migliore, più veloce, un Lockheed (oggi metà delle vendite annuali della corporation sono al Ministero della Difesa statunitense). “La vedo volare verso la guerra”, dice Anderson. “È una storia molto americana”.
Come disco, Amelia è “un puzzle e un esperimento felice”. Il nucleo dell’opera risale a vent’anni fa, in una versione orchestrale per la Carnegie Hall, “orribile, la cosa più inascoltabile del mondo!”, dice Anderson. Durante la pandemia il direttore d’orchestra Dennis Russell Davies le ha detto “Salviamo le parti di archi”; e infine la terza versione, quella appena uscita. Un disco fatto a strati e al contrario: la Filharmonie Brno diretta da Davies ha registrato le sue parti, Anderson ha aggiunto l’elettronica e le voci, poi ha cercato un ponte tra la sua viola elettronica e l’orchestra – le percussioni di Kenny Woolesen, il basso di Tony Sherr, la viola di Martha Mooke, gli archi del Trimbach Trio, Marc Ribot alla chitarra e Anohni, la persona che ammira di più come interprete per la sua capacità di raggiungere vette sublimi. “Voglio che tu sia il vento: devi cantare di precipitare attraverso le nuvole, di onde d’aria e di cose immateriali, ma devi essere la forza che spinge questa barca”, le ha detto.
La voce di Laurie Anderson invece si moltiplica: è la narratrice, la voce di Amelia, della radio appena udibile, del paesaggio, ognuna processata in modo diverso. E c’è la voce dell’aereo, il rombo potente che apre e chiude il disco: “È il suono del motore quello che ricordo di più”, dice Amelia, che volava a bassa quota e vedeva il paesaggio nei dettagli – il bucato steso ad asciugare, il lavoro delle donne – ma vedeva anche l’ombra del suo aereo scintillante.
Amelia è un puzzle in cui ogni tessera scivola così serenamente al suo posto che va a comporre un capolavoro, in cui musica e narrazione vivono in equilibrio estatico. Ascoltare è vedere un film: lunghe panoramiche dell’aereo che scivola lungo autostrade celesti e dettagli vividi, commoventi: la lettera in arabo che Amelia porta con sé in caso precipitasse nel Sahara, il dizionario comprato a Bangkok, la foto in posa per i fotografi che la chiamano Lady Lindy (da Charles Lindbergh). Non ho nemmeno un nome, dice Amelia.
Se comprate il vinile con la copertina apribile, apprezzerete meglio l’immagine dell’artwork: pilot’s glory (più prosaicamente, spettro di Brocken) è un fenomeno ottico che si verifica quando l’aereo ha il sole alle spalle e la sua ombra è proiettata su una nuvola, circondata da un alone arcobaleno. La foto del disco è in bianco e nero, per vedere i colori della corona luminescente serve un volo dell’immaginazione. La stessa che portò una donna visionaria e ipertecnologica a imbarcarsi in un’impresa mai tentata prima. La stessa con cui novant’anni dopo un’altra donna, altrettanto visionaria e ipertecnologica, mantiene viva la sua storia. (pubblicato su Il Manifesto del 13 settembre 2024)