Ho ritrovato questa intervista del 2004, per la promozione dell’album Before the poison.
Marianne Faithfull deve essersi appena svegliata. La voce che arriva da migliaia di chilometri di distanza, già roca di per sé, è stanca, le parole non generose. A San Francisco sono le 13. La sera prima all’American Conservatory Theater è andato in scena The Black Rider, un’opera teatrale tratta da un testo di William Burroughs, con musica e liriche di Tom Waits e la regia di Robert Wilson. Marianne interpreta il ruolo di Peg Leg, il diavolo. Le repliche andranno avanti fino al 10 ottobre, ogni sera il teatro è tutto esaurito. Burroughs era uno dei suoi migliori amici. Il Pasto Nudo, divorato con avidità da adolescente, è il libro che le ha segnato la vita. Negli anni della maturità, tuttavia, Marianne ha ammesso di averlo totalmente frainteso in quella prima lettura. Oggi lo definisce “un testo evangelico contro le droghe” e se le chiedi un consiglio letterario, ti risponde “Quando non sai che fare, leggi Shakespeare.”
Letteratura ed esperienze estreme sono nel suo destino. La madre, Eva, discendeva da un’antica famiglia aristocratica, i Sacher-Masoch. Durante la guerra fu stuprata dai soldati russi. Incinta, abortì. Un suo prozio, il barone Leopold, è l’autore del romanzo Venere in Pelliccia (1870), da lui deriva il termine “masochismo”. Il padre, il maggiore Glynn Faithfull, lavorava per i servizi segreti britannici. Il nonno paterno era un sessuologo: inventò la Macchina della Frigidità che nelle sue intenzioni avrebbe sbloccato l’energia libidica primordiale e curato i mali del mondo. Tutto questo avviene nelle prime quattro pagine della sua autobiografia (Faithfull, 1994). Marianne si è dimostrata all’altezza del background familiare: popstar a 17 anni, madre a 18, fidanzata di Mick Jagger a 19, eroinomane a tempo pieno a poco più di venti, quando va a vivere per le strade di Soho e negli squat. Viene iscritta al programma del servizio sanitario nazionale, le danno uno dei dosaggi più alti. Fa un primo tentativo di disintossicazione all’inizio degli anni ’80 in Inghilterra, ma solo nel 1985 ci riesce alla clinica Hazelden, in Minnesota. Va a vivere per nove anni in un cottage nella campagna irlandese – “una grande esperienza spirituale” – e poi a Dublino.
Oggi Marianne dice di vivere per la musica, anche se le piace molto recitare, sia a teatro che al cinema (il suo ultimo film è Nell’intimità di Patrice Chéreau del 2001). Dopo Broken English, il disco del ritorno nel 1979, ha pubblicato molti altri album. In Kissing Time (2002) ha chiamato a sé giovani collaboratori di talento come Beck, Billy Corgan, Jarvis Cocker. Qualcosa di simile accade in Before the Poison, in uscita a fine settembre: un disco cantautorale più rock che pop, “dark” come nelle intenzioni di Marianne, serio e dolente. Spartano, asciutto, intenso senza esibizione, commovente. L’impronta più forte, musicale ed emotiva, la lascia P.J. Harvey con quattro canzoni. Tra Marianne e Polly Jean è percepibile un’empatia immediata, naturale. Le voci si fondono; le storie di amore, amicizia, dolore sono raccontate con le stesse parole. Nick Cave e il nucleo dei Bad Seeds collaborano a tre canzoni. Chiude City of Quartz, scritta da Marianne con Jon Brion, ma è Damon Albarn dei Blur l’autore della canzone più bella del disco (Last Song).
A metà ottobre Marianne tornerà in Europa, metterà insieme un nuovo gruppo e l’11 novembre inizierà un tour che la porterà anche a Milano e Roma. Con una sorpresa che ci anticipa nel corso di una (a tratti laconica) chiacchierata.
Le canzoni di Damon Albarn hanno una qualità diversa da quando è diventato papà. Si sente una serenità e una maturità che prima non aveva.
Sono d’accordo. Damon è molto innamorato e felice, e questo lo rende più solido, maturo e gentile. Ci conosciamo da molto tempo, siamo buoni amici. Alla fine delle sessioni di Kissing Time gli ho chiesto di scrivermi un’altra canzone e lui ha composto Last Song, che così è diventata la prima del nuovo album. Parla di quando era ragazzo e c’erano ancora grandi campi verdi dove adesso sono state costruite case. E’ una canzone sulla fine dell’Inghilterra.
Che progetto avevi per questo album?
Volevo fare il disco dark più perfetto che avessi mai fatto.
Tra te e P.J. Harvey si percepisce una grande intesa.
E’ vero. Polly è venuta a sentire un mio concerto a Central Park a New York. Non sapevo che fosse tra il pubblico. Qualche settimana dopo in un’intervista al New York Times ha parlato molto bene del concerto, dicendo che le sarebbe piaciuto collaborare con me. L’ho chiamata subito perché anch’io volevo lavorare con lei. L’ho incontrata mentre ero con Beck a Los Angeles. Abbiamo scritto le canzoni di Before the Poison insieme a Parigi, in cinque giorni, e ci siamo trovate molto bene.
Non sorprende trovare anche Nick Cave in questo disco.
Con Nick ho lavorato in modo diverso. Ho scritto i testi a Parigi e glieli ho mandati per fax a Brighton, dove vive. Lui ha scritto le musiche, poi ci siamo incontrati a Parigi con i Bad Seeds, abbiamo provato le canzoni e le abbiamo registrate in studio a Londra. I Bad Seeds sono musicisti straordinari, ci siamo trovati così bene che vogliamo lavorare di nuovo insieme.
Sarebbe bello vedervi suonare insieme dal vivo.
Forse succederà presto, proprio in Italia. Saremo a Milano negli stessi giorni, potremmo fare qualcosa insieme.
E’ curioso sentire le canzoni di Polly Jean e di Nick susseguirsi sullo stesso album. E’ un po’ come se tornassero insieme, ma separatamente.
Fossi in te non insisterei su questo argomento. Posso solo dire che si considerano due persone assolutamente distanti.
La mia idea è che lei abbia sofferto molto.
Ma adesso si è ripresa e sta benissimo.
I tuoi testi sono molto asciutti, quasi minimali. Tu sei una grande lettrice, hai qualche modello letterario?
No, ho trovato il mio stile che è piuttosto contenuto. Non essendo più molto giovane, sono meno presa dal mio io, non voglio essere ridondante, barocca su me stessa. Al contrario preferisco la semplicità, non mi interessano i fronzoli.
Desperanto è “la lingua della disperazione”, quella che oggi si parla ovunque, senza doverla studiare. Quali sono le tue preoccupazioni in questo momento?
(L’intervista si è svolta il giorno del massacro a Beslan, che Marianne ha appreso da me nel corso dell’intervista, ndr) Quelle di tutti: il terrorismo, la guerra, il fatto che così tante persone siano uccise nel mondo senza una ragione, o per le ragioni sbagliate. Migliaia di persone sconosciute muoiono ogni giorno, è un massacro segreto che va avanti. Il mondo in cui viviamo oggi è un posto terribile.
Peggio di quanto sia mai stato in passato?
Sì.
Com’era invece essere adolescenti negli anni ’60?
Divertente. L’adolescenza prima non esisteva. Il concetto aveva già messo radici negli Stati Uniti, ma non ancora in Europa. La vita dei teenager è cominciata negli anni ’60. Per me è stato un periodo bellissimo.
A cui sono seguiti gli anni ’70, un periodo triste e deprimente per molti. Anche per te.
Negli anni ’60 ero molto giovane e idealista, pensavo che tutto fosse splendido. Negli anni ’70 mi sono trovata in una situazione completamente diversa. Avevo solo 24 anni e pensavo che la mia vita fosse finita. E’ stato così per molto tempo.
Perché?
Perché sbagliavo.
My Friends Have è la canzone più solare dell’album. Chi sono i tuoi migliori amici?
Ho amici meravigliosi sparsi in tutto il mondo. La mia famiglia e mio figlio Nicholas, che è diventato uno dei miei migliori amici dopo che il nostro rapporto ha attraversato molti alti e bassi (Marianne ne perse la custodia negli anni della tossicodipendenza, ndr). Ho molti amici musicisti, tra cui quelli che suonano con me. Anita (Pallenberg) e gli Stones sono miei amici. William Burroughs, Allen Ginsberg e Gregory Corso erano miei amici e anche Serge Gainsbourg, di cui sento molto la mancanza.