Schaulager. Il nome suona un po’ tetro. Ci vado perché me l’ha consigliato Urs, a proposito di nomi che incutono timore. Lui me ne ha parlato come di un luogo stupendo e imperdibile, ma ai confini del mondo: “E’ fuori città! Devi prendere il TRAM! Oppure un TAXI!”. Addirittura. In realtà ho capito che a Basilea tutto è al massimo a 20 minuti di mezzi pubblici, anche la Germania e la Francia. Dopo un’attenta pianificazione strategica della mattinata, prendo l’11 sotto l’albergo, portandomi dietro un foglietto con gli schemini dei tram, dei cambi e delle fermate, con gli orari ben schedulati a mo’ di Benjamin Franklin, e parto.
Il tram mi deposita proprio davanti un edificio austero e un po’ minaccioso, che infatti è letteralmente un “deposito visitabile”. Progettato dai soliti Herzog & De Meuron, lo Schaulager è uno spazio enorme di 20.000 metri quadrati su 5 piani dove le opere sono conservata in condizioni climatiche ottime (per le opere, al visitatore è vivamente consigliato il golfino), ma anche messe a disposizione di artisti, addetti ai lavori e studenti. In pratica è un ibrido tra magazzino, museo e istituto di ricerca, rivolto soprattutto a specialisti, ma anche al pubblico. Al momento c’è la mostra FUTURE PRESENT, con installazioni di grande formato ai piani superiori e altre selezioni nei piani inferiori. Il programma cambia su base quotidiana. Non è facilmente fruibile. Confesso che in alcuni casi sono stati i custodi (mai visto uno spiegamento tale di addetti per sala!) a indicarmi dove guardare e che cosa fare. Mi auguro che ci sia una rotazione frequente del personale, perché non deve essere divertente passare tutto il giorno in una stanza con un girotondo di giganteschi topi nero catrame, con il muso rivolto all’esterno e le code all’interno a formare un gomitolo.
Un giorno alla Galleria Borghese, davanti ai Caravaggio, ho pensato: “Chissà quanti milioni di euro ci sono in questa stanza”. Quello che mi è passato sotto gli occhi in tre giorni a Basilea fa saltare il banco. A parte la parata di Warhol, Picasso, Mondrian, Chagall, Klee, Mirò e via discorrendo, ho visto due installazioni memorabili: una molto intensa e toccante, perfino emotivamente pericolosa, l’altra molto divertente.
La prima si intitola “Mother and Son. My Mother’s Album”, di Ilya Kabakov (ucraino, nato nel 1933). Prima di entrare prendi una torcia e poi ti immergi nell’oscurità della coscienza, l’inconscio, il passato, un liquido amniotico intriso di ricordi, pezzi di vita, traumi. Ci sono fili come quelli del bucato stesi per tutta la stanza, con un’infinità di piccoli oggetti appesi – residui di vita quotidiana, minuzie – ciascuno con un’etichetta (un modo di dire, domande banali o esistenziali). Su di loro punti la luce debole della lampada, per illuminare il singolo elemento, procedendo a caso nel buio pesto, come in un flusso di coscienza di libere associazioni. Sulle pareti illustrazioni da riviste degli anni ‘50, propaganda sovietica che mostra esistenze felici, persone gioiose, trionfanti. Sotto a ognuna, un breve testo dattilografato, in cui la madre dell’artista racconta esattamente il contrario, di una vita dura, infelice, di delusioni e avversità. Mentre nella stanza una voce anziana e cantilenante recita nenie. Molto forte, come se la luce della torcia ti toccasse cervello, cuore e pancia, premendo su lividi, su nervi scoperti, e facesse vibrare corde. Come entrare nel proprio passato, non importa quando e dove sei nato. E’ una oscura cassa di risonanza. Sono rimasta pochissimo.
L’altra è piuttosto famosa e si intitola Plötzlich diese Übersicht, in inglese Suddenly This Overview, in italiano All’improvviso questa rivelazione (?), di Peter Fischli e David Weiss. Una stanza piena di piccole sculture di argilla distribuite a caso, ognuna sul suo piedistallo, con la sua didascalia, il fotogramma di un momento preciso nella storia dell’umanità, più o meno eclatante. Scene di vita quotidiana e momenti cruciali nella storia della scienza, religione, cultura, sport. Un po’ come viaggiare nel tempo nel labirinto della storia, in cui in effetti il banale e il metafisico convergono in modo inaspettato e, per fortuna, spesso divertente. Dai fenici ai romani, a una finale di Germania-Italia, al Dottor Hoffmann e il suo primo viaggio con LSD. Purtroppo non sono riuscita a trovare Mr and Mrs Einstein shortly after the conception of their son, the genius Albert. E’ con questo rimpianto che intirizzita guadagno l’uscita, declinando l’invito di uno dei solerti custodi a visitare gli altri piani.
Varie domande, a cui ancora non ho trovato risposta, mi rimbalzavano nella testa durante la visita: perché il divieto di fotografare e di toccare tutto? Capisco che non puoi spostare le pietre di Richard Long e che molte opere sono fragili per via dei materiali detoriorabili. Ma le sculture di Chillida sono esposte alle intemperie, alla furia delle onde dell’Atlantico a Ondarreta a San Sebastian, sono di acciaio corten che è indistruttibile e ti invita proprio a toccarlo, a sentirlo. Non sono concepite per essere solo guardate. E quei topi che sembrano fatti di pece o catrame, possibile che non si possano toccare? Un’opera che non mi chiede di essere percepita come La Gioconda, non dovrei sperimentarla in altro modo? Qual è il senso dell’arte contemporanea? Non è contraddittorio trattarla come quella classica, iperproteggendola – anche dalla riproduzione fotografica – come una reliquia?
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