E’ un lunedì mattina di giugno e la baia di Dublino è inondata di sole. Il mare è piatto, si vede nitida tutta la costa da Sandycove a sud, e oltre il promontorio di Howth a nord, verso Malahide. Pare che Byron abbia detto che questa è la baia più bella del mondo. Oggi non faccio fatica a crederci. Camminiamo in fila indiana scomposta lungo le scogliere sulle tracce di Leopold e Molly: domani è il Bloomsday e come degli Ulisse teleguidati rimbalziamo da un punto all’altro del flipper joyciano. Il minipullmino ci scorrazza dalla National Library al Cimitero Monumentale di Glasvedin, da un literary pub crawl a un mini walking tour, da un brunch a un breakfast estratti dalle pagine di Ulisse, con tanto di manualetto e suggerimenti delle Ulysses things to do.
Ho deciso di farne almeno tre, così mi sono fermata davanti alla vetrata di Shakespeare nella Biblioteca Nazionale, ho comprato una saponetta al limone da Sweny, ma poi non ho trovato le statue greche al Museo Nazionale, e in alternativa non mi andava il sandwich al gorgonzola e il bicchiere di borgogna al pub Davy Byrne. Più che altro per il gorgonzola. Però ho la fortuna di assistere a una conversazione brillante, da morire dal ridere, tra un senatore esperto di Joyce – David Norris – e Stephen Fry al Belvedere College, alma mater dello scrittore. Insomma, come primo Bloomsday della mia vita non è per niente male.
Ma adesso siamo sulle scogliere di Howth, dove Molly ha detto sì per la prima volta a Leopold (“the sun shines for you he said the day we were lying among the rhododendrons on Howth head in the grey tweed suit and his straw hat the day I got him to propose to me yes first I gave him the bit of seedcake out of my mouth and it was leapyear like now yes 16 years ago my God after that long kiss I near lost my breath yes he said I was a flower of the mountain yes”). Se qualcuno ha l’impudenza di chiedere “Dove, esattamente?”, l’arguta risposta irlandese è “Ultimo cespuglio in fondo a destra”. La scena potrebbe essere pressappoco così:
Anche W.B.Yeats ha trascorso parte della sua infanzia in una piccola casa sulle scogliere di Howth. In questo viaggio in Irlanda Yeats e Joyce si incrociano di continuo, perfino nelle vignette di Annie West. Dici Yeats e dici leggende, miti, storie soprannaturali che pullulano nel ricco immaginario del patrimonio folklorico irlandese, fortunatamente immune, secondo lui, dalle forze omologanti dell’industrializzazione, della ragione e del progresso che uccidono mistero e fantasia.
Un uomo ricco di contraddizioni, visto che proprio ai progressi della scienza si affidò negli ultimi anni della sua vita per un intervento di ringiovanimento che ebbe effetti prodigiosi sul suo fisico e sulla sua mente. Lo raccontò nel 1937 ad Avies Platt la cui testimonianza, curiosamente, è emersa proprio nel 2015, anno di celebrazioni per i 150 anni dalla nascita. Nell’ottobre del 1890, invece, in un saggio pubblicato sulla rivista londinese The Leisure Hour, elogiava il fascino persistente dell’immaginario folk della sua isola e scriveva che “a Howth, a dieci miglia da Dublino, c’è un sentiero delle fate lungo il quale una nutrita colonia di creature soprannaturali si sposta dalla collina verso il mare per poi tornare a casa. C’è anche un campo che da quando ci fu costruita una baracca per gli ammalati di colera, è infestato di fate e spiriti maligni.”
La prima volta che sono stata a Howth ho incontrato solo foche, ostriche e un’altra giornata di sole. Howth è un villaggio pittoresco, silenzioso, tranquillo, a portata di metro e di autobus. Usciti dalla stazione, se guardate per terra troverete le indicazioni per diversi sentieri e passeggiate. Incamminatevi fiduciosi. Qualunque sia l’itinerario scelto, arriverete comunque al centro del paese, dove noterete troppi negozi di souvenir e altre botteghe leziose quanto inutili. Non ci badate, puntate dritti verso le ostriche e la Guinness nei locali vicino ai moli, date da mangiare alle foche, poi oziate osservando i pescherecci e le tipiche attività portuali.
Se le fate e i folletti di Yeats vi lasciano scettici, crederete almeno a una pagina di storia che ha per protagonista la Regina del Mare del Connacht, la grande e potente pirata Grace O’Malley, per gli amici Gráinne Mhaol. Nel 1576, in viaggio da Dublino, decise di fare una visita di cortesia a Lord Howth nel suo castello, ma venne informata che la famiglia era a cena e così le chiusero i cancelli in faccia. Grace abbozzò, consapevole che la vendetta è un piatto che va servito freddo, come la cena che probabilmente dovette mangiare a bordo della sua nave quella sera, e che di sicuro le andò di traverso. Ma poi rapì il nipote ed erede del conte, che rilasciò – da gran signora che era – solo quando il conte dimostrò di aver imparato le buone maniere: i cancelli sarebbero da allora rimasti aperti ai visitatori inaspettati e a ogni pasto ci sarebbe stato un posto in più a tavola, giusto in caso. E così è ancora oggi.
Vicino al castello noterete campi da golf a perdifiato, sui quali – apprendo con disappunto – è stata introdotta la nuova disciplina del footgolf, il golf giocato con i piedi, sulla quale sospendo il giudizio solo perché la pratica anche Juan Sebastian Veron (di cui non dimenticherò mai la prima discesa in campo allo Stadio Olimpico). Stavolta non vedo le foche e nemmeno le ostriche: abbiamo fatto un pranzo veloce all’ottimo Findlater, dove l’unica pecca è l’abuso di capperi nell’insalata. Dopo l’isteria per le olive di qualche anno fa, i capperi si confermano la nuova inquietante moda nella gastronomia irlandese. Prima o poi qualcuno atterrerà inevitabilmente anche sulla schiuma del capucinno.
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