Tra Nick Cave e Andrew Dominik c’è un solo grado di separazione: si chiama Bond, Deanna Bond. Quando uscì la celebre canzone dei Bad Seeds a lei dedicata, il regista aveva appena cominciato a uscire con l’ex fidanzata di Cave, che sarebbe diventata la madre di suo figlio. Entrambi sono di Melbourne ed essendo di dieci anni più giovane, Dominik è cresciuto all’ombra cupa e minacciosa di Cave, che nella sua città è un personaggio famigerato e idolatrato. Tra loro c’è un legame – bond, in inglese – che dura da trent’anni. E’ naturale che per un progetto scabroso come One More Time With Feeling, Cave si sia rivolto a Dominik. In occasione dell’uscita del nuovo disco Skeleton Tree, piuttosto che rispondere alle domande dei giornalisti sulla morte del figlio Arthur, ha preferito sottoporsi a una confessione pubblica che a stento possiamo chiamare rockumentary.
Il disco è inseparabile dal film – che sarà nelle sale solo il 27 e il 28 settembre – ma Skeleton Tree è di per sé non recensibile perché il suo valore sta più nell’atto umano che nella musica. E’ un album in cui i Bad Seeds rimasti (Martyn Casey, Thomas Wydler, Jim Sclavunos) si stringono intorno al loro leader più moralmente che musicalmente, perché il loro ruolo è di accompagnamento minimale. Il progetto, come sempre più è accaduto negli ultimi anni, è una stretta collaborazione fra Nick Cave e Warren Ellis, e va nella direzione delle colonne sonore che i due hanno composto insieme. L’album sembra partire esattamente là dove il precedente Push The Sky Away finiva. Tra quell’ultima traccia e le nuove canzoni esiste una perfetta continuità sonora. Gli arrangiamenti si fanno più scarnificati, tanto che i brani suonano a tratti come dei demo: elettronica, tastiere, riverberi, effetti, archi, pochi tocchi di chitarra, ancor meno di batteria e percussioni, cori spettrali e la voce di Cave spesso simile a un parlato. La potenza sonica dei Bad Seeds è praticamente ammutolita, eppure Skeleton Tree è il loro disco più apocalittico.
Dal luogo di dolore atroce in cui si trova e da cui non può fuggire, Cave torna ad altri momenti bui della sua esistenza, come gli anni della tossicodipendenza più squallida. Se in The Sick Bag Song, il diario dell’ultimo tour nordamericano, raffigurava il suo personaggio con una ciotola in mano davanti a uno specchio intento a tingersi i capelli, in Magneto si rivede riverso sul pavimento del bagno in preda a una tempesta elettrica, aggrappato alla tazza del WC. Ci sono versi dedicati al figlio in Girl in Amber: il gesto paterno di chinarsi per allacciargli le scarpe e prenderlo per mano prima di uscire di casa – è più straziante il ricordo del gesto o dei suoi occhi azzurri? – e il coraggio di pronunciare le parole che scolpiscono la realtà della perdita:
Sapevo che il mondo avrebbe smesso di girare da quando non ci sei più
Quando sei morto, pensavo che vagavi per il mondo in un dormiveglia,
finché non ti sgretolavi e venivi assorbito dalla terra.
Ecco, non lo penso più.
L’unica voce femminile è Else Torp in Distant Sky, l’episodio più elegiaco e vagamente consolatorio del disco. Il soprano danese era presente in The Bad Seeds Jukebox (la compilation per il mensile Mojo del febbraio 2014) con My Heart’s in the Highlands di Arvo Pärt. Non c’è niente di consolatorio invece nei versi finali dell’album, che chiudono uno scenario domestico desolato come un albero scheletrico: “Niente è gratis e va tutto bene ora”, dove “it’s all right now” suona laconicamente ironico. Per che cosa c’è da pagare sempre un prezzo nella vita? Per un artista la cui musica è stata da sempre caratterizzata dall’ossessione per la morte, la morte di un figlio può diventare arte? Sembra che il Libro di Giobbe che da giovane si divertiva a leggere, identificandosi con il Dio violento e spietato del Vecchio Testamento, improvvisamente gli si sia materializzato intorno.
Se è ancora vivo, Nick Cave lo deve all’arte che è la sua terapia occupazionale e la sua ragione di vita. Lo spiega molto bene nel saggio La Carne Fatta Verbo, la sua autobiografia artistica. Sfinito dalla fatica di sostenere quell’odio viscerale e totale, da adulto ha letto i Vangeli in cui ha trovato la sua fede laica. Rovesciando l’assunto del Verbo che si fa Carne per salvare l’umanità, crede nella Carne che si fa Verbo attraverso il dono divino dell’immaginazione: Cristo è l’Artista. La grandezza di Skeleton Tree e One More Time with Feeling sta nell’essere un’opera eucaristica, in cui Nick Cave ci offre il suo corpo di uomo di dolore sotto forma di suoni, immagini e parole. La grandezza di Nick Cave come essere umano è scegliere di non tornare al Dio del Vecchio Testamento, né di soccombere alla Nemesi che presenta il conto, ma di restare fedele a se stesso: l’Artista davanti all’assurdità della vita che pretende di essere vissuta e trasformata in arte. Finora nessuno nella storia della popular music aveva osato tanto.
(pubblicato su Il Manifesto il 24 settembre 2016)
mi aspettavo molto da questo articolo e ho trovato ciò che cercavo.
adesso, lo so.
Grazie, Raffaele. Temevo di scivolare nel delirio mistico, ma oggi dopo aver letto una recensione di un disco di Colin Stetson in cui il critico diceva che ascoltare l’album era come essere investiti da una cometa, mi sono convinta di aver schivato l’apologia! Per questa volta, lo so.
Bellissimo articolo. Credo che Skeleton Tree sia il miglior disco di Nick Cave dai tempi di No More Shall We Part, e quasi mi dispiace dirlo, perché così sembra che il dolore faccia bene all’arte, e invece non credo che questo sia vero. E se è vero, non è giusto. Non sono d’accordo con la tua lettura del disco, però. E’ chiaro che il dolore pervade tutto e all’inizio sembra oscurare tutto il resto. Ma come succede con i dischi belli, a ogni ascolto si scopre qualcosa di nuovo. Dove sembrava che ci fossero solo tenebre si trova luce, dove sembrava che ci fosse solo un rumore monolitico si trova melodia, dove sembrava che ci fosse solo dolore si trova speranza. Come accade nella vita, anche il dolore più terribile, alla fine – se non altro per sfinimento – lascia il posto a qualcos’altro.
Grazie, Alessandro. Infatti il disco cambia con il tempo e tu stai scrivendo il 30 novembre, a due mesi e mezzo dall’uscita! Sono d’accordo con te, è uno dei miei 5 dischi dell’anno. Grazie per avermi scritto e per l’apprezzamento.
Quali sono gli altri 4?
Teoricamente dovrei aspettare l’inizio di gennaio quando andranno in onda a Battiti. Però solo per te faccio un’eccezione: David Bowie, Mélanie De Biasio, Beyoncé ed Esperanza Spalding. Hanno senso, per me, messi insieme. Poi ti racconto…
http://www.battiti.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-eef9afdc-d3e7-4703-8025-37cc7aac0add.html