Quella che sto per raccontarvi è una storia realmente accaduta. Un giorno ero uscita dalla radio e morivo di fame. Non avevo “fatto bancomat” e in tasca avevo esattamente 1 euro e 27 centesimi. Con questo budget, sulla via di casa passando per il centro, sono entrata nel Forno Roscioli, in Via dei Chiavari. Ho chiesto un pezzo di pizza (bianca, per non rischiare di sforare), ho indicato alla persona dietro al banco quanta ne volevo (“Così?”, “Un po’ meno”). Lui l’ha pesata e ha battuto lo scontrino: 1 euro e 27 centesimi. Ho pagato e appena uscita me lo sono divorata con un gusto e una soddisfazione di poco inferiori all’incredulità per quanto era appena accaduto.
A Roma c’è un’epidemia, quella dei negozi e delle botteghe che scompaiono. Uno dopo l’altro, luoghi a cui eravamo affezionati pur senza esserne clienti regolari, chiudono dalla sera alla mattina. Al loro posto aprono attività che cambieranno con frequenza e, a differenza dei loro predecessori, non avranno mai una storia. Avviene soprattutto con le attività artigianali e le botteghe del centro storico: i negozi di tessuti e mercerie , i cappellai, le librerie e discoteche, negozi di scarpe perlopiù inaccessibili, ma davanti ai quali era bello fermarsi a sognare. Aprono negozi per turisti (pelletterie, valigie, souvenir) e quella nuova piaga per la lingua italiana prima ancora che per la ristorazione: sakerie, temakerie, cornetterie, crostacerie, lasagnerie e via discorrendo.
“Oh bella… non c’è più quello delle carte da parati!”
“Qui?”
“Qui. C’è sempre stato. Dove adesso c’è la jeanseria”.
“Avranno preso dei bei soldi per cedere”.
”Certo, non ci può essere altra ragione per smantellare una tradizione, togliermi una certezza”.
La città non ci metterà molto a dismettere anche la jeanseria, sono già in parola con un fast food. Non esistono più le clientele, non quelle dei negozi almeno. C’è chi pensa sia meglio: passi davanti a una vetrina, entri e compri.
“Mi ricordo quando ti dovevi comprare una cosa, sapevi dove andare, se con tram o in macchina. C’era un commesso da Galtrucco (che mi pare non ci sia più) che quando vedeva entrare la zia Lina si faceva il segno della croce. Stava anche mezz’ora a tenerle due rotoli di stoffe davanti alla porta a vetri. Mica un secolo fa. Saranno trent’anni”. (Franca Valeri, Bugiarda no, reticente, Einaudi)
Con qualche rara e felice eccezione, quando un’attività invece cresce e si moltiplica. E’ il caso di una famiglia di fornai che oggi a tavola ospita i migliori cuochi del mondo e nel libro che racconta la sua storia si fa scrivere la presentazione dal numero 1, Massimo Bottura di Osteria Francescana. Il forno Roscioli sta nel cuore di Roma, nell’antico Campo Marzio, oggi Rione Parione, tra il Teatro di Pompeo (i cui resti sono ancora visibili nella spa dell’Hotel Lunetta e nei sotterranei del ristorante Da Pancrazio) e il luogo dove fu ucciso Cesare (pressappoco il Teatro Argentina). Tarquinio il Superbo trasformò Campo Marzio in un campo di grano: la toponomastica ricorda ancora che in quest’area si conservava il cereale e si faceva il pane (Vicolo dei Granari, Via del Monte della Farina).
Qui, in Via dei Chiavari, il 26 febbraio 1972 apre il Forno Roscioli, un affare di famiglia tra zio Franco e il nipote Marco, che alla fine degli anni ‘50,a soli 12 anni, era arrivato a Roma dalla provincia di Ascoli Piceno per fare il garzone di bottega. Roscioli è un’istituzione non solo nel quartiere: la pizza sottilissima è leggendaria, le vetrine traboccanti crostate, torte di mele, biscotti sembrano l’illustrazione di un libro di fiabe. Quella dei Roscioli invece è una storia vera, fatta di abnegazione e sacrifici, di sfide e tenacia, di scontri generazionali, crescita ed evoluzione.
Allo storico forno con la sua ottima e affollatissima tavola calda negli anni ’90 si è aggiunta la Salumeria con Cucina e quest’anno la Caffetteria. Ai primi freddi autunnali sono corsa a mangiare le lasagne, altre volte mi fermo per un aperitivo con prosecco & supplì – quelli nuovi al pesto e pistacchi sono divini! Il libro edito da Giunti racconta tutto: presenta i protagonisti e i loro preziosi collaboratori tra cui il magrissimo Nabil, “una scultura di Giacometti”, lo chef tunisino diventato lìder maximo della Carbonara. Soprattutto è pieno delle ricette tradizionali del forno (pane, crostata di ricotta e visciole, ciambellone di nonna Jolanda, pizzette), del ristorante (“Buro” e alici, baccalà carbonaio, polpette, tiramisù), della tavola calda (porchetta, carciofi alla giudia, pomodori al riso, gnocchi) e del Caffè aperto nei locali della storica pasticceria Bernasconi. In questo caso un esempio felice di come per una volta al posto di una vecchia bottega ne nasca un’altra perfino migliore: qui i croissant sono fatti con burro francese e anche il cappuccino di soia è squisito.
Per ogni situazione – uno spuntino, un regalo, un aperitivo, un pasto come si deve – i Roscioli ci sono: dall’euro di pizza bianca (avrei dovuto giocarmeli l’1 e il 27!), a cappuccino e cornetto, mortadella & champagne, o la cena da rockstar con le migliori etichette del mondo. Anche Keith Richards lo sa.
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