Il kindle mi dice che sono ancora al 53% del libro. Nonostante le lunghe sessioni di lettura da almeno un paio di settimane, di giorno e di notte, mi resta ancora quasi la metà di Una Vita come Tante, il romanzo-monstre di Hanya Yanagihara. Due settimane scandite dalle centinaia di tagli che Jude St Francis, il protagonista, si infligge, scarnificandosi con lame di rasoio, aprendo solchi nella carne viva, separando tessuti, creando nuovi cicatrici su quelle già esistenti per mancanza di spazio, trovando la ragione nella lacerazione, sottraendo carne, materia, come per scomparire.
E’ una giornata di primavera a Roma, dopo qualche giorno di pioggia è tornato il sole. Entro da White Noise a Via dei Marsi incuriosita dalla personale di Lee Madgwick, Stand-by, secondo capitolo della Trilogia del Silenzio in corso nella galleria di San Lorenzo. Appena varcato l’ingresso, a sinistra, mi trovo davanti una grande tela squarciata da una lunga spaccatura che corre attraverso un campo erboso. Nel suo cammino la crepa incontra una casa, una grande dimora austera, dall’aspetto abbandonato; si infila sotto al portico, spacca la facciata e il tetto. La frattura disegna una curva in salita là dove dovrebbe esserci il viale di accesso alla residenza. Intorno a quell’elemento architettonico vagamente spettrale, sicuramente inquietante, la natura appare composta, perfino rigogliosa: il prato verde, gli alberi frondosi e fitti ai lati e dietro l’edificio austero, quasi razionalistico, nitido ma desolato. Mentre la natura sembra autocurarsi, è il prodotto della creazione umana a essere incrinato in modo irreparabile. Quel rift nel terreno, come una ruga profonda, non altera l’esistenza di erba e alberi, e nemmeno delle nuvole fitte né del cielo azzurro. E’ solo l’elemento umano ad accusare la ferita, è l’anello debole, fragile della catena. Ed è completamente assente, scomparso.
Una tela piccola ritrae una casa più modesta, quasi neoclassica, con degli infissi turchesi, il muro scrostato, la tenda staccata, le tapparelle sconnesse, qualche ciuffo d’erba cresciuto sul tetto. Anche da qui gli umani sembrano essersene andati. Un edificio monco, un assurdo architettonico, si erge come una piccola cattedrale di cui resta solo l’involucro, un arco su un piccolo corso d’acqua. Qui è ancora più evidente come Lee Madgwick lavori per sottrazione, togliendo le coordinate spaziotemporali per rendere le sue rappresentazioni universali, ma soprattutto eliminando la presenza umana che retrocede da ciò che ha costruito e un tempo abitato. A volte una luce accesa pare indizio di una presenza, ma è sempre e soltanto l’elemento architettonico a esistere con certezza, pur nella dislocazione che fa sembrare i palazzi astronavi urbane atterrate nel nulla. Le abitazioni sono diventate gusci vuoti, vestigia di una civiltà che potrebbe essere scomparsa, lasciandosi dietro le sue contraddizioni: l’edificio cupo che fa pensare al Bates Motel di Psycho, su cui torreggia l’insegna Safe House; o l’invito a sognare nel graffito di un’altra casa derelitta, un invito a credere in qualcosa nonostante la devastazione del tempo e della vita. E’ serafico anche il piccolo faro che si erge su una collina rigogliosa, con l’erba mossa dal vento.
Davanti a queste tele desolate, in cui solo il paesaggio è vivo, è curioso pensare al più inglese dei pittori, Constable, con i suoi scenari maestosi, epici, in cui ferve l’attività umana oltre a quella della natura, e ad Edward Hopper, americano e metropolitano. In questa paradossale simbiosi di urbano e naturale, tutto è fermo, sospeso nell’attesa, in Stand-by.
Al piano di sotto, il mondo si rovescia come in un negativo: anche qui c’è una casa un po’ fatiscente a giudicare dalla porta e anche questa sembra abitata vista la luce accesa. Ma è la natura che manca, indicata da parole sulle pareti e i soffitti neri: cielo, nuvole, fiume, albero, paesaggio, prato. Nel buio pesto di uno spazio uterino che si richiude sopra il visitatore, ma che dopo lo spaesamento iniziale diventa stranamente accogliente, è l’essere umano a dover emergere come coscienza per creare il mondo intorno a sé. Deve attingere al ricordo di ciò che ha visto di sopra, per evocarlo con l’immaginazione nell’antro sotterraneo. In questo underworld la presenza umana diventa essenziale per dare senso. L’immaginazione, la coscienza, la memoria ci rendono indispensabili e ci fanno finalmente esistere dentro un quadro di Lee Madgwick.
“Lee Madgwick ha due filoni – dice Carlo Maria Lolli Ghetti, curatore della mostra insieme a Eleonora Aloise – quello degli spazi vasti, aperti in cui vengono paracadutate delle architetture chiuse, e quello con effetto surrealistico di un oggetto completamente scisso da un contesto chiuso, come il sommergibile a mezz’aria in una foresta, o il castello gonfiabile nella giungla (esposto alla White Noise, ndr). Tutti i quadri sono sospesi in un limbo tra il malinconico e il placido. C’è la calma apparente della campagna inglese in contrasto con i palazzi e la sensazione di qualcosa che sta per accadere, senza traccia evidente di un’azione in corso. Per quanto sospesi, in questi quadri c’è sempre qualcosa: il vento che pettina l’erba , una lampadina accesa in una finestra, l’idea che stia accadendo qualcosa senza traccia di un’azione. I due grandi richiami di Lee Madgwick sono con la pittura di veduta da Grand Tour e l’estetica surrealista. La prima perché all’epoca c’era l’idea di creare delle visioni finte, dei pastiche tra un paesaggio bucolico inventato, d’effetto, di natura pura con al centro una rovina, un reperto archeologico per dare il senso storico. Il richiamo al surrealismo c’è nelle atmosfere magrittiane, nel contrasto assoluto che passa anche per la totale indeterminazione dei luoghi: gli edifici sono molto realistici ma totalmente generici. A parte i segni umani come l’insegna luminosa, i graffiti.Ancora una volta, un mondo sospeso, in stand-by”.
Trilogia del Silenzio, capitolo II
LEE MADGWICK – STAND-BY
8 aprile – 31 maggio 2017
White Noise Gallery, Via dei Marsi 20-22
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