(pubblicato su Il Manifesto del 2 febbraio 2018) Emel Mathlouthi è stata la voce della Rivoluzione dei Gelsomini con le sue canzoni di protesta “Ya Tounes Ya Meskina” (Povera Tunisia) e “Kelmti Horra” (Il mio mondo è libero). Dopo essere vissuta in Francia, da qualche anno vive a New York, ma tiene occhi e orecchie aperti sul mondo. Così ha realizzato Ensen, un album potente ed emozionante, un felice matrimonio di musica organica ed elettronica dalla forte impronta personale. A gennaio è stato pubblicato anche in Italia, dove a febbraio terrà tre concerti: l’8 al Teatro Sanbàpolis di Trento, il 9 al Centro Candiani di Mestre e il 17 al Teatro Miela di Trieste.
Perché hai lasciato la Francia?
A Parigi non avevo più l’ispirazione. Vivere a Harlem è un’esperienza che ti arricchisce. La comunità artistica e umana è molto effervescente. Si respirano vibrazioni creative, c’è molta libertà artistica ed è qui che ho prodotto il mio nuovo album: le mie collaborazioni non avvengono solo con musicisti ma anche con graphic designer, fotografi, videomaker.”
In Sallem canti: “Rinuncia ai tuoi, ai tuoi amati, alla tua educazione, ai tuoi valori, a tutto ciò che ti appartiene…” Questa e altre canzoni sembrano parlare di esilio. E’ così?
Le canzoni non parlano di esilio fisico. Vivo fuori della Tunisia da così tanti anni ormai che mi considero una cittadina del mondo. Sallem esprime un sentimento di diversità causato da pressioni sociali, dall’individualismo e insensibilità che a volte ti fanno sentire un’outsider. E’ di quello che parlano alcune canzoni. L’album non è malinconico, parla di ricerca di identità, rabbia, rifiuto verso chi governa il mondo, e c’è anche una componente mistica.
Chi ti ispira nella scrittura dei testi?
Leggo molti poeti, la poesia è una delle forme d’arte più intense, forse la più forte che gli esseri umani abbiano creato per esprimere il mondo attraverso immagini e magia. Vado spesso ai reading di poesia, mi piacciono molto T.S. Eliot, perché ha un modo molto potente di mettere insieme le parole, e Rainer Marie Rilke. Entrambi possiedono un’immaginazione così potente e ricca che con le parole riescono a fare tutto.
E poeti tunisini?
Non al momento. Da ragazza ho letto Abu l-Qasim al-Shabbi, ma mi piace anche il libanese Kahlil Gibran, che io considero uno sperimentalista.
Come sono nate le canzoni di Ensen?
Scrivo musica continuamente, in modo naturale e spontaneo. Quando ho cominciato a lavorare al nuovo album, il primo passo è stato esplorare le canzoni scritte negli ultimi anni e registrarle in forma acustica, solo pianoforte e chitarra, poi aggiungere le percussioni. A quel punto ho iniziato a lavorare alla produzione. A volte preferisco decostruire, cominciare dalle linee più semplici della canzone finché diventano interessanti dal punto di vista sonico. Credo di aver lavorato su sette livelli diversi! Alla fine sono riuscita a infondere alle canzoni la profondità che volevo, ma anche la dinamica, l’energia necessarie a esprimere i diversi sentimenti. Quando lavori con l’elettronica la prima cosa a cui pensi sono i beats. Sapevo che per me i ritmi prodotti da un software non avrebbero funzionato. Volevo qualcosa di autenticamente mio. Da tempo sono molto affascinata dai riti tribali tunisini e dai suoni tribali. Le canzoni erano nate senza percussioni, ma ho capito che avrebbero beneficiato dell’aggiunta di quella tavolozza. Ai percussionisti abbiamo chiesto di suonare ritmi tunisini, che per me sono diventati un’enorme scatola piena di giocattoli. Abbiamo messo tutto nel computer, lo abbiamo passato attraverso pedali ed effetti per tradurre i suoni in strati sonori. Tutto è suonato a mano, ma l’elettronica apre la possibilità di andare oltre e di ispirare il mondo, perché questa non è musica legata a una regione o un periodo di tempo: è musica che attraversa i confini.
Lo stesso trattamento è riservato a strumenti folk come il gumbri (liuto a tre corde), lo zukra (flauto), i tamburi bendir, il gamelan?
Ho molto rispetto per i musicisti tradizionali, ma avevo bisogno di persone che conoscano la tradizione e allo stesso tempo siano in grado di seguirmi quando voglio andare in un’altra direzione. Il percussionista è tunisino e suona musica tradizionale ma conosce la musica elettronica. Il gumbri è suonato dal mio coproduttore Amine che non è un esperto dello strumento ma sa suonare gli arpeggi e le melodie.
Anche per la produzione hai messo insieme un team.
Un conoscente mi ha fatto il nome di Valgeir Sigurðsson, l’ho cercato su Google, ho visto le sue collaborazioni e ho ascoltato i suoi dischi. La sua musica mi ha sedotto. Per me era il produttore perfetto perché è in contatto con la musica classica contemporanea e fa produzioni elettroniche, inoltre cercavo una persona che fosse il mio opposto: lui viene dal Nord, io dal Sud. Mi piace lavorare con diverse persone contemporaneamente, è importante per dare respiro all’album e non avere una visione unica. Ho contattato anche Johannes Berglund, con cui ho amici in comune, come la cantante norvegese Anne Brun. Con Amine Metani invece siamo amici da circa dieci anni, ma ho scoperto i suoi talenti musicali solo in occasione di questo disco. E’ stata una fortuna e una sorpresa, perché a volte il lavoro può distruggere un’amicizia. Abbiamo corso il rischio e ha funzionato. Mi piace il fatto che non mi giudica mai. Alla fine ogni tassello è andato al posto giusto, ognuno ha dato il suo contributo in modo perfetto e io ho avuto la fiducia in me stessa necessaria a coordinare tutto.
Come si vive da artista donna araba nell’America di Trump?
New York non è gli Stati Uniti. Il paese vive forti contrasti. Nella cultura e nell’arte accadono cose molto interessanti ed è difficile conciliarlo con il fatto che il presidente è un individuo dalla mentalità così ristretta e un fascista. Per questo è ancora più importante essere diversi in quest’epoca, perché le persone sono più attente alle altre culture. Forse anche in modo negativo, ma per me è una bella sfida cercare di dare il mio contributo.
Ascolta un brano da Ensen di Emel Mathlouthi
Photo credit: Mehdi Hassine
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