Questione di legittimi punti di vista e “mestiere” della critica musicale, ma una delle cose che spesso non si perdona a un artista è la sua altrettanto legittima libertà nella scelta delle cover da interpretare (dettata dal cuore o talvolta puramente utilitaristica che sia). Ed ecco dunque che se nel 1971, l’artista che compare al cospetto dei critici dell’epoca con una manciata di importanti pezzi pop di successo del tempo è una donna dalla solida fama e preparazione musicale come Nina Simone, l’immediata accoglienza generale risulta piuttosto tiepida: da un lato alcuni dei brani proposti sono già di per sé immortali (e dunque quasi intoccabili a scanso di critiche), dall’altro la chiave jazz/soul/gospel applicata da Simone non sempre viene giudicata all’altezza delle sue indubbie e celebrate capacità.
Nel ’71 Simone aveva alle spalle un notevole numero di album che già avevano decretato il successo della sua voce viscerale, “baritonale”, e delle sue performance di pianista e interprete dalle movenze corporee a volte legnose ma sempre sensuali. Quello stesso anno, Simone aveva deciso di abbandonare gli USA e stabilirsi all’estero, con tutto il suo bagaglio di impegno e coscienza civile che negli anni precedenti l’avevano avvicinata con il cuore agli ideali di Martin Luther King e con le parole e i gesti alla reazione di Malcolm X.
La RCA le fa incidere un disco di cover declinate come standard jazz: il risultato sono otto brani che costituiscono un telaio da cui si dipanano fili che proiettano i vari pezzi e generi musicali verso nuove e parallele vite artistiche. Ecco allora che la title track, un omaggio ai Beatles e a George Harrison, è comunque resa propria da Simone, mentre la coveratissima Just Like A Woman non è scontata se interpretata da chi come lei ha amplificato la voce femminista della fine dei ’60. Nonostante l’enigmatico significato del testo non sia mai stato svelato dal geniale Dylan, Nina Simone, proprio come risulta naturale a ogni donna, ha facoltà di dare il suo personale riscontro a certi versi, come quando nelle esibizioni dal vivo – anche a tarda carriera – cambia la persona dalla terza alla prima e canta “and I ache just like a woman, and I (don’t) break just like a little girl”.
La leggerezza pop emerge attraverso l’orchestra in O-o-o Child, portata originariamente al successo dai Five Stairsteps, mentre la narrazione country rock che Jerry Jeff Walker aveva pensato per Mr Bojangles viene rallentata ma non perde il suo significato se la chitarra viene sostituita dal piano e dalla batteria spazzolata. Se un’altra grande artista come Mama Cass Elliot prestava la sua autorevole voce al sogno hippy di New World Coming, Nina Simone quel sogno semplicemente lo canta in veste della High Priestess of Soul che di fatto è. E poi la chiosa di tutte le chiose: quella My Way anch’essa negli anni così onnipresente, ma è sufficiente ascoltarne qualche resa live proprio del periodo ’70-’71 e osservare le movenze e lo sguardo fermo di Nina Simone per comprendere l’affermazione convinta della sua strada e delle sue scelte.
Pur dal suo esilio volontario, e dalle difficoltà causate dal disturbo bipolare e conseguente trattamento farmacologico, Nina Simone non quieterà mai la sua voce che tanto aveva cantato e difeso i diritti civili, sublimando alcune imperfezioni tecniche di Here Comes The Sun attraverso una carriera straordinaria e una preparazione alla musica (da lei definita “musica classica nera”) e alle scelte di vita assolutamente uniche e indiscutibili.
Cristiana Paolini è traduttrice e interprete perché da piccola provava a cantare l’inglese dei Beatles che uscivano sempre dall’autoradio di suo padre. Da allora ha continuato e continua a cercare di “capire” tanta altra musica. Ha scritto per anni per JAM e Rockfiles.
Gli altri dischi del 1971.