Una volta ho letto un articolo in cui si svelava a che età gli artisti avessero scritto i loro capolavori. Si rimane sempre piacevolmente impressionati (e un po’ depressi) nello scoprire che per esempio Bob Dylan ha scritto Blowin’ in the wind a 21 anni. Quando Dolly Parton scrive Coat of many colors ha 25 anni e già una lunga carriera fatta di partecipazioni televisive, collaborazioni musicali, moltissime esperienze come autrice e altri sette album solisti alle spalle. Sarà proprio l’ottavo album a farle riscuotere i primi consistenti successi commerciali, con singoli in classifica, nomination a vari premi e un buon numero di cover firmate da altri artisti. Era un’epoca in cui la discografia dava molte chance agli artisti anche dopo album non particolarmente clamorosi. Dolly Parton diventa una star anche fuori dal circuito sicuro del country americano, che vive di vita propria e di un mercato territoriale, dove artisti poco noti fuori dai confini raggiungono in patria vette altissime.
Il successo commerciale corrisponde con la definitiva marcatura dello stile Parton, che ricopre di una patina scintillante gli stilemi del genere e alterna sapientemente nella tracklist momenti più riflessivi a brani di bluegrass spinto e ritmiche danzerecce. Nel disco ricorrono forme non comuni nel pop, come interi brani privi di ritornello, insieme ad altre canzoni più propriamente dette, ma è nella title-track, primo brano del disco, che si riconosce la vera anima di Parton. La sua voce di soprano è sempre misurata negli abbellimenti, in un cantato più dritto rispetto, per esempio, alle linee melodiche imprevedibili della sua collega Joni Mitchell, ma ugualmente brillante e melodiosa. Il testo racconta con delle immagini molto tangibili la sua storia: quarta di dodici figli in una famiglia povera, rappresentata dal cappotto di tanti colori fatto a mano dalla mamma unendo tanti piccoli stracci. È un racconto straziante e tenero, molto dettagliato ma allo stesso tempo ricco di i tutti i grandi temi del genere: la cattiveria umana, il riscatto sociale, l’orgoglio per le proprie radici.
L’album riprende in quarta mostrando l’altro lato della scrittura di Parton, quella dissacrante e ironica di Traveling man, che racconta l’inusuale triangolo amoroso tra l’uomo, lei e la madre di lei. Il disco sfoggia anche una grande varietà timbrica, come la chitarra slide e i violini di She never met a man (she didn’t like), l’intro di basso di Early morning breeze, grandi concessioni alla chitarra elettrica, in un abbinamento perfetto con i quadretti descritti e i concetti espressi nei testi. La seconda parte è dedicata a testi d’amore più di maniera ma ugualmente affascinanti, carichi di valori antichi e universali. Curioso come i testi più astratti e ricchi di “immagini immaginarie”, come The Mystery of the Mystery, siano quelli scritti dal suo partner musicale Porter Wagoner.
Da questo album in poi i discografici capiranno che la strada di Dolly Parton, anche come autrice, non è solo quella del country: è infatti una grande scrittrice di musica pop capace di lasciare tracce indelebili nella storia della canzone americana e non solo. Basti pensare che poco dopo nasceranno Jolene e I will always love you, che scaleranno le classifiche pop e non solo country. Coat of many colors diventa così la chiave con cui Dolly Parton si schiude e prende il controllo totale della sua creatività, che ci restituirà il personaggio iconico che tutti conosciamo, ironica e melodiosa proprio come la sua voce.
Se scoprirete di amare questo disco, il consiglio è di dare un ascolto alla degna erede Margo Price.
Chiara Longo ha 31 anni, vive a Milano ma è nata in Puglia. Durante gli studi in ambito musicologico si unisce alla redazione di Rockit.it di cui diventa caporedattore dopo la laurea, con una tesi sull’esperienza di Eddie Vedder come compositore di musica per film. Collabora con varie testate online e non, occupandosi anche di serie tv, food e cultura digitale.
Gli altri album del 1971.