Janis Joplin aveva una voce incredibile, siamo tutti d’accordo, ma la prematura scomparsa e l’immediato ingresso nel club dei 27 hanno contribuito a renderla eterna al di là della sua voce e della sua musica. Janis è un’immaginetta, Janis è folklore, Janis è una bottiglia di Southern Comfort. Anche chi non ha mai ascoltato per intero un suo disco, sa riconoscerne i tratti e scommettere sulla sua follia. Che matta Janis! Sì, Janis era un vero spasso. Ma chi, quella che diceva di fare l’amore con migliaia di persone sul palco e poi di tornare a casa sola? Sì, proprio lei, che strani questi artisti!
Janis Joplin è immortale, è evidente. I suoi album, i documentari sulla sua vita, i musical e l’intero merchandising continuano ancora a fruttare bene. Ma a quale prezzo? Chi c’era, chi l’ha conosciuta, la ricorda soprattutto per i suoi appetiti sessuali. Vini Lopez, uno dei batteristi storici di Bruce Springsteen, non molto tempo fa si è ricordato di quando il povero Bruce fu costretto a darsela a gambe dopo un approccio un po’ troppo focoso di Janis. Ronnie Wood e Rod Stewart si spalleggiano a vicenda quando è il momento di tornare indietro nel tempo a quella volta in cui Janis li aspettava in albergo e loro zitti, nascosti dietro a una pianta nella hall per non farsi vedere. Leonard Cohen, un vero gentleman, non ha ancora smesso di chiedere scusa al fantasma di Janis per avere scritto una canzone sui loro celeri incontri al Chelsea e per avere, di lì a poco, fatto nomi e cognomi. Baron Wolman, il primo fotografo assoldato dalla rivista Rolling Stone, ha costruito un’intera carriera sugli scatti nella camera da letto di Janis. Kris Kristofferson fu più diretto, non aspettò la scomparsa della cantante per prendere le distanze, ma ogni volta che suona Me and Bobby McGee il cuore gli si stringe un po’.
Me and Bobby McGee è una canzone contenuta nell’ultimo lavoro in studio di Janis Joplin, Pearl, pubblicato l’11 gennaio del 1971. Janis se n’era già andata da tre mesi, ma non si tratta di un disco postumo perché tecnici e musicisti giurano che quello che c’è su quell’album è stato riascoltato e approvato da Janis stessa. Le registrazioni risalgono al mese di settembre del 1970. Il 5 gennaio registra quello che forse resta uno dei brani più celebri e rappresentativi del suo repertorio: Cry Baby è il canto dei cigno o soltanto uno sfogo meraviglioso, una canzone che arriva subito, un pugno allo stomaco e allo stesso tempo una liberazione per chi non ha voglia di aspettare. Quattro settimane dopo quella registrazione, Janis è già morta. Se ne va in overdose di eroina il 4 ottobre in un’anonima stanza d’albergo e ci vorranno ore prima che qualcuno si accorga della sua assenza. Eppure stava lavorando, le registrazioni non erano ancora terminate. Tre giorni prima aveva registrato Mercedes Benz, uno dei primi pezzi in cui si era piacevolmente scoperta autrice. Ma c’era ancora da registrare la voce di Buried Alive in the Blues. Ma dove diavolo è finita Janis?
Nel suo ultimo mese di vita Janis non lo sa, ma fa testamento. Lancia la sua carriera solista, realizza un disco che si apre con Make Over, il primo brano interamente scritto di suo pugno e registra quel pezzo abbozzato per lei da Kris Kristofferson prima che le cose diventassero troppo impegnative, anche se alla fine “Freedom’s just another name for nothing left to lose”. Non è così, Kris? Janis lascia parecchie tracce insomma, rispolvera il blues attraverso performance incendiarie, dà sfogo alle frustrazioni, non finge, spinge un po’ troppo sull’acceleratore, ma c’è lei alla guida. Nelle sue sperimentazioni non mette in pericolo nessuno se non se stessa e sì, a Woodstock scioglie un po’ di LSD nel caffè del backstage, ma era Woodstock, non un tè con il presidente. Vero, Grace?
Janis si divertiva un mondo, ma a noi restano le sue lacrime; sapeva essere molto divertente, ma della sua malinconia si ricordano tutti; era solitaria eppure, ancora oggi, quando si tratta di puntare il dito su qualcuno che sapeva spassarsela eccola di nuovo lì, a ricordarci quanto disinibita fosse. Lo storico direttore del Chelsea, Stanley Bard, scomparso lo scorso anno, in un’intervista ricordava Janis come una donna sensuale, esotica e meravigliosa. E molto intelligente e colta. Peccato per il rumore: gli ospiti residenti al suo stesso piano non facevano che lamentarsi per gli schiamazzi che provenivano dalla sua stanza. Uomini e donne desiderano la cantante texana nello stesso modo sfrenato in cui desiderano Jim Morrison, solo che alla prima non si fanno sconti. Janis è un perfetto mix di carisma, talento e magnetismo sessuale, Janis è sex, drugs and rock’n’roll e non sappiamo cosa l’abbia colpita al cuore prima.
A due mesi dall’uscita di Pearl, a cinque dalla sua scomparsa, la saggista americana Marion Meade scrive un articolo per il New York Times intitolato Does Rock Degrade Women? Marion non offre risposte a questa domanda, si limita a fare il punto della situazione. Un punto che inizia qualche mese prima, quando il film sul festival di Woodstock arriva sugli schermi. Un documentario in cui per circa due ore, a eccezione di un’incinta Joan Baez, le sole donne ad apparire sono quelle a petto nudo che si sdraiano sui prati, si prendono cura dei loro bambini e all’occorrenza servono pasti caldi. Marion non impiega una riga in più per dare forma al suo disagio: l’intera cultura rock percepita fino a quel momento è molto degradante per le donne. “Ho raggiunto questa conclusione con riluttanza e con una buona dose di tristezza perché il rock è stato importante per me (…) Da sempre facevo il tifo per il lato sbagliato”. Analizzando i dischi di Rolling Stones e Bob Dylan non ci sono dubbi su chi sia al servizio di chi. Ma anche per Beatles e Leonard Cohen le donne sembrano soprattutto madonne che sussurrano parole di saggezza.
“Dal momento che il rock è scritto quasi interamente dagli uomini, non sorprende il fatto di trovare questa frenetica celebrazione della supremazia maschile. Ma è anche comprensibile in termini di radici da cui il rock si è evoluto. Sia nel blues sia nel country, l’atteggiamento verso le donne rifletteva un rabbioso machismo: i maschi dominavano sempre e le femmine erano puttane volubili che scappavano con altri uomini”. Nella primavera del 1971 Marion si chiede come offrire una guida alle ragazze che vogliono cercare di essere ottime rocker ora che Janis non c’è più. Tina Turner all’epoca è ancora legata al marito-padrone Ike. Grace Slick non sembra molto interessata a lasciare i Jefferson Airplane, Joan Baez, Joni Mitchell e Judy Collins – per quanto icone folk – non sono artiste di rottura. “A questo punto, cosa offre il rock alle donne? Molto poco” secondo Marion Meade, una donna che nel 1971 non si domanda se i Beatles torneranno insieme, ma se sul palco ci sarà mai spazio per il rock composto e suonato da donne. “Per troppo tempo ci siamo sedute malinconicamente in disparte, recitando i nostri ruoli di groupie adoranti. Le donne hanno sempre costituito un segmento importante del pubblico rock. A meno che l’industria non sia disposta ad alienarci completamente, è meglio ricordare proprio le parole di Bob Dylan: non occorre un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento. I tempi stanno cambiando, eh, ragazzi?”
Laura Gramuglia è speaker, dj, autrice. È stata tra i conduttori di Weejay a Radio Deejay. Ha scritto di musica e donne su «Rolling Stone», «Tu Style», «Futura» e ha collaborato al lancio della piattaforma online radio e podcast Spreaker. Per Arcana ha pubblicato Rock in Love. 69 storie d’amore a tempo di musica, Pop Style. La musica addosso e Hot Stuff. Cattive abitudini e passioni proibite. L’erotismo nella musica pop. Su Radio Capital ha condotto i programmi Rock in Love, Happy Summer Happy Capital, Capital Holiday, Capital Hot e Capital Supervision.
Gli altri album del 1971.