Holly Golightly, versione Truman Capote, con la voce di Billie Holiday: questa era Karen Dalton. Una vagabonda, una sbandata, una nomade, una donna americana, una persona con un talento soverchiante che non era capace di gestire e domare per coglierne i frutti. Quando ciò avviene, purtroppo è il talento a prendere il sopravvento e a bruciare l’esistenza del suo veicolo umano. Per qualche circostanza non è finita nel club dei 27, ma è la sorella maggiore (più che la madre) di Amy Winehouse e di Janis Joplin. E se Lady Day ha ricevuto il colpo di grazia dal razzismo, Karen Dalton ha incrociato le vene con il virus dell’AIDS. Sign o’ the times, direbbe quell’altro genio compianto di Prince. Ma questi sono dettagli biografici, tanto più morbosi quanto meno si sa dell’esistenza di una persona. Lo stesso vale per Nick Drake. Visto che l’abbiamo tirato in ballo, è curioso come due esseri umani e musicisti sideralmente distanti sul piano biografico abbiano così tanti tratti in comune. Leggete questa intervista di Joe Loop, curatore dei dischi di inediti di Karen, e poi mi direte.
Riascoltare In My Own Time dopo qualche tempo, con le orecchie pulite come le narici dopo aver annusato chicchi di caffè nel negozio di un profumiere, è sorprendente anche dopo infiniti ascolti. Mentre sfilano When a man loves a woman e How sweet it is, penso a Mayer Hawthorne e alle aperture irresistibili del suo pop-soul ruffiano. Karen non sapeva che cosa fosse la ruffianaggine. Ha una voce rotta, incurante, stoica e beffarda che canta senza crederci per niente quant’è dolce essere amata da te, cambiando tonalità, interpretandola a suo modo perché lei è così e la canzone la rigira, la smonta, la taglia e ricuce a sua immagine e somiglianza. Musicista e interprete straordinaria, le veniva l’orticaria ogni volta che entrava in studio, ma nel 1971 fa quanto di più somigliante a un disco pop si potesse pretendere da lei. Prendete In a station, di Richard Manuel di The Band: per quale assurdo motivo un pezzo così non avrebbe dovuto scalare le classifiche? Con lei c’è un gruppo di supporto di una dozzina di persone che a tratti suona come una piccola orchestra trainante, altre volte si riduce a piccolo ensemble di accompagnamento. Una duttilità simile fa pensare ai Bad Seeds di Nick Cave, non a caso suo grande ammiratore (ha trasmesso la sua venerazione alla moglie Susie, stilista ispirata dal look country di Karen, genere La casa nella prateria).
E’ nei momenti più rarefatti, nei traditional come Katie Cruel (la canzone che meglio la identifica) o Same old man che emerge la Karen Dalton più vera: quella che mostra la carne viva sotto la pelle e la trasforma in musica, viscerale, autentica, un magistrale country blues di cui è interprete sublime. Un disco cucito addosso al suo fisico esile e slanciato di donna indomabile come un capo di alta sartoria: lei lo indossa con eleganza naturale come nel rhythm’n’blues un po’ funky, un po’ rock di One Night, per poi mettersi un vecchio cardigan e chiudere il secondo lato tornando sui suoi passi con Are you leaving for the country dell’ex marito Richard Tucker.
Oggi un disco come In My Own Time lo si ama all’istante. Nella nostra discoteca emotiva Karen è accanto a Nick (Drake) e Amy, a quelli che il posto se lo sono conquistati continuando a ringhiare alla vita (Nick Cave), mentre su tutt’altro scaffale ci sono quelli che, veri paraculi, ce l’hanno fatta surfando e se la godono (i Devendra). Cominciate da questo disco e poi a ritroso ascoltate tutti gli altri, anche i demo casalinghi più roots. Karen non vi lascerà mai più. Non è tanto la mia promessa: è il suo incanto.
Paola De Angelis parla alla radio, scrive su Il Manifesto e insegna Pilates. Non dite a Nick Cave che una sua (ex) amica la definì “la più grande esperta di cantanti morti”. Se proprio lo venisse a sapere, spiegategli che si riferiva all’improbabile trinità costituita da Nick Drake, Johnny Cash e Serge Gainsbourg.
Gli altri dischi del 1971.