Leggi la prima parte qui.
NON E’ COME VOI PENSATE
Contrariamente a quanto piace pensare agli altri, non sono una che vive ogni giorno di musica. Ci sono dischi che amo e che non ascolto per molto tempo perché ho bisogno di metterli a distanza. Sono ancora la prima a stupirmi quando mi innamoro di un disco, quando scopro qualcosa che riesce a farmi abbandonare, perché ormai mi considero cinica e inoltre Radio3 mi ha rovinata, rendendomi molto esigente. Per abbandonarsi alla musica è necessario compiere un percorso, nel mio caso un percorso personale di cambiamento.
Qualche anno fa ho abbandonato la musica, pur continuando a occuparmene per lavoro. Non avevo più con la musica quel rapporto fondamentale, perfino viscerale, che c’era stato per tanti anni. Da quando ero bambina e scoprivo i Beatles grazie ai 45 giri in vinile delle mie zie, ai primi vinili miei, la scoperta del rock al liceo, i primi concerti, che erano anche battaglie per poterci andare. Tutte cose che costruiscono l’identità perché a quell’età la musica è una scelta identitaria.
THE BEATLES, NICK DRAKE, LOU REED
Poi ho iniziato a fare la radio, che è una scelta di vita, a fare interviste e tradurre, finché ho scritto un libro su un musicista – Nick Drake – entrando con lui in un rapporto molto intimo per quanto la musica e le parole lo consentano (e il fatto che è morto 45 anni fa). Scrivere di musica, essere associata alla musica dalle persone, parlarne in pubblico ma arrivare a provare indifferenza, non ascoltarla più, usarla solo per lavoro, quel tanto che basta. Ci sono state motivazioni familiari che hanno portato a quel distacco, che è stato l’abbandono di un nucleo molto importante di me stessa: la musica mi aveva sempre dato gioia, esaltazione, commozione, mi diceva chi ero, e per alcuni anni ho quasi annullato me stessa per occuparmi di altro.
Non posso dire che il rock and roll mi ha salvato la vita come a Lou Reed, però è responsabile della sua configurazione. Ai miei scaffali pieni di cd ci passavo davanti con indifferenza mentre si riempivano di polvere. Non era solo l’abbandono di uno strumento di fruizione. Per diversi anni nella mia vita c’è stato poco spazio e tempo per la gioia, la spensieratezza, l’esaltazione date dalla musica. Quella parte di me è rimasta silente e abbandonata.
ENTER THE GONG BATH
Se per abbandonarsi alla musica bisogna fare un percorso, a volte c’è proprio da compiere un tragitto fisico. La mia ultima esperienza di abbandono al suono è stata in Cornovaglia all’inizio di settembre, quando ho partecipato al primo gong bath della mia vita. La prima a parlarmi dei gong bath è stata Carly Wilford, mentre andavamo all’aeroporto di Valletta alla fine dell’IRF 2018. Il discorso era saltato fuori di nuovo durante un seminario con Cathy Fitzgerald, parlando con una dei partecipanti. Ho cercato “gong bath cornwall” su google e ne ho trovato uno a pochi km da dove alloggiavo.
Si è svolto in una sala della chiesa metodista di Delabole con Sue Johnson, in un silenzio e raccoglimento naturali: un paesino nei pressi di Tintagel, il castello dove secondo la leggenda è nato Re Artù. Il gong bath è un massaggio sonoro che arriva in ogni cellula del corpo, può indurre uno stato meditativo profondo, svolge una funzione terapeutica, eliminando le tensioni a livello psico-fisico e in una dimensione più sottile ripulendo il campo magnetico, lavorando sulle frequenze.
Il modo migliore per predisporsi all’esperienza è abbandonarsi, lasciarsi investire dai suoni senza opporre resistenze.
E’ stata un’esperienza molto positiva, ma per farla ho dovuto compiere fisicamente il percorso da casa alla Cornovaglia – un viaggio che aveva una valenza particolare e quindi un significato simbolico – e una volta lì abbandonarmi.
Ho ripetuto l’esperienza due settimane dopo a Roma ma non è stata la stessa cosa. Mancava il percorso. (continua)