Il viaggio inizia nel consueto treno sporco, maleodorante e claustrofobico. Senza alloggio per i bagagli, disseminato di gradini e scale scomode e strette, il tripudio degli spazi angusti. Arrivo in aeroporto e senza passare per il check in, senza più la carta d’imbarco stampata, vado direttamente al controllo passaporti. Mando giù tutta l’acqua nella bottiglietta per restare idratata durante il volo (fissazione che mi porto dietro da quando leggevo le riviste femminili, indipendentemente dalla durata del volo, che in questo caso dura poco più di un’ora), tiro fuori il laptop, i liquidi, mi tolgo giacca-sciarpa-collana-scarpe, infilo le babbucce blu di plastica, l’oggetto usa e getta con il record negativo di tempo di utilizzo (meno di 10 secondi?), passo sotto il metal detector, recupero tutto e mi avvio verso il gate. A Fiumicino il controllo è ultra rapido, si sa.
Un turista sta scattando una foto a una foto del Colosseo. Se ho capito bene, vuole farla passare per sua. Un poster dell’Expò mi riporta inaspettatamente in quinta elementare, quando gli smartphone erano molto in là da venire. Una fotomodella in veste di raccoglitrice di caffè in primo piano, una donna anziana nell’atto di innaffiare una pianticella sullo sfondo. Sembra uno di quei disegni che facevamo per i concorsi sull’Europa Unita. All’epoca mia madre, che mi suggerì quello che selezionarono nella mia scuola, era più concettuale.
Nel frigo di un bar affollato sono disposti tramezzini confezionati che si chiamano “W la mamma”. La mamma che nelle pubblicità della tv italiana prepara il cibo per gli altri ma non per sé, perché le donne negli spot mangiano solo yogurt per non avere la pancia gonfia e l’intestino pigro ed essere pronte alla prova costume, mentre gli uomini si ingozzano di schifezze. A noi è concessa al massimo la mortadella di pollo. Perché io tanto valgo.
Al secondo tentativo della mia vita centro il lettore ottico della carta d’imbarco, sono nel finger, poi in fila per entrare in cabina. Proprio sullo scalino, intravedo i piloti. Uno è molto giovane, l’altro più anziano e porta un orecchino al lobo sinistro. Sta bevendo un caffè.
Saranno entrambi felici? Qualcuno avrà messo un diuretico nel caffè?
La Swiss Air si conferma la compagnia con il peggior cibo a bordo, anche se l’Air Malta pure non scherza. Un croissant striato dall’aspetto appetitoso si rivela di cartone irrigidito dal frigo. Lo appoggio sul bicchiere di caffè solubile sperando che il vapore lo riscaldi, poi ce lo immergo. E lo mangio pure.
In basso rettangoli di giallo acido e brillante, verde scuro, marrone tenue. Atterriamo fra brevi squarci di giallo intermittente e misterioso. I piloti erano felici.
Dunque, Zurigo…
I treni svizzeri mi ossessionano con quei salottini al primo piano a cui si accede tramite scale così ampie e comode che non inciamperesti neanche con lo strascico, figurati con un trolley. Sono sempre semivuoti, immacolati e puntuali. Sono una beffa e una provocazione. In quei dieci minuti dall’aeroporto alla stazione non hai neanche tempo di godertelo il salottino con il tavolinetto. Non potremmo fermarci un quarto d’ora tra Torricola e Casilina?
Undici minuti dopo, alla stazione mi accoglie un angelo custode gioioso, gaudente e colorato. Il primo consiglio per chi arriva a Zurigo è “alzate gli occhi al cielo” per non perdervi una delle “nana” di Niki de St Phalle. Sotto i suoi auspici vado in cerca del tram numero 4.
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