Lo scorso 5 luglio, per festeggiare i suoi ottantacinque anni, i Brighton Morris Men hanno danzato davanti alla sua casa di Lewes, la cittadina dell’East Sussex dove vive. La giornata era ventosa ma piena di sole. Per Shirley Collins, la più grande interprete folk inglese del ventesimo secolo, è stata una bella sorpresa. Più inaspettata ancora è stata quella che lei ha fatto a noi il 27 maggio, quando è stata annunciata l’uscita di Heart’s Ease, il nuovo album pubblicato da Domino a fine luglio. Nel 2016 Lodestar era stato il sensazionale ritorno alla musica dopo trentotto anni di silenzio. L’ultimo album con la sorella Dolly era del 1978. Due anni dopo Shirley perse la voce: la medicina la chiama disfonia, lei lo chiama mal d’amore.
Il suo primo disco si intitola Sweet England ed è del 1959, l’anno in cui insieme ad Alan Lomax e un registratore a bobine intraprende un viaggio avventuroso negli Stati Uniti del sud, a bordo di una Buick che volava lungo le strade dell’Arkansas e del Mississippi. Quelle registrazioni sul campo sono diventate leggendarie: da lì vengono Trouble So Hard di Vera Hall (portato in classifica da Moby) e diversi brani ripresi in Brother, Where Art Thou? dei fratelli Coen. Pochi però conoscono il ruolo cruciale svolto da Collins durante quell’impresa. Lomax è stato avaro di riconoscimenti: in La Terra del Blues la cita una sola volta come «la deliziosa folksinger inglese che mi ha accompagnato durante il viaggio». Nel 2004 lei ha raccontato la sua versione nel memoir America Over the Water. Una ricostruzione accurata compare in The Ballad of Shirley Collins, lo splendido documentario del 2017 ora disponibile on demand su Vimeo.
Collins e Lomax si erano conosciuti nel 1954 a casa di Ewan MacColl a Londra. Lui era di ritorno da un viaggio di oltre tre anni in Italia e Spagna in missione per la Columbia e la World Library of Folk and Primitive Music, ma in Europa era venuto anche per sfuggire al maccartismo. Quando Shirley arrivò negli USA, mentì spudoratamente all’ufficio immigrazione e negò di avere contatti con pericolosi comunisti. A parte la relazione con Lomax, i cui spostamenti in Europa erano monitorati su richiesta dell’FBI, Shirley veniva da una famiglia militante: la madre era repubblicana, iscritta al partito comunista e a volte spediva le due figlie a vendere il Daily Worker a Hastings.
Nata nel 1935, Shirley è figlia della classe operaia, padre in guerra e madre a guidare autobus per mantenere la famiglia, spiagge recintate dal filo spinato, pesanti calzini di lana infilati sugli stivali di gomma per non scivolare sulla neve, aerei grigi con la croce nera nei cieli, evacuazioni, razionamenti e le canzoni folk cantate dai nonni. A quindici anni decide che vuole cantare, trascrivere e tramandare quell’immenso patrimonio popolare a cui è legata da un amore profondo. Dalla fine degli anni ‘50 alla fine dei ‘70, con una decina di dischi a suo nome, con la sorella Dolly e la Albion Band, Shirley è diventata l’essenza della folksong inglese, un’interprete pura, priva di vanità personale e di ego, il mero tramite fra la canzone e chi l’ascolta.
Nell’autobiografia All in the Downs – Reflections on Life, Landscape and Song (2018) racconta come la musica tradizionale e il paesaggio inglese hanno plasmato la sua esistenza. Dall’infanzia nel Sussex rurale e prebellico all’austerità del dopoguerra – quando il revival del folk coincide con la scoperta di sé come donna, artista e archivista – agli «anni di vetro di mare» in cui non era più Shirley Collins la folksinger ma un’impiegata in un Job Centre, fino a quando le cose si sono rimesse in moto all’inizio degli anni 2000, il libro è la testimonianza preziosa di un’esistenza straordinaria.
«La voce di Shirley Collins fende le parole come un raggio di sole che si incunea nell’acqua scura di un fiume», scrive Jonathan Coe in Middle England. Nell’iPod di Benjamin, il protagonista del romanzo, c’è la sua versione di Adieu Old England, ballata che esprime la nostalgia per un paese che ormai esiste solo nel ricordo e nel suo patrimonio immateriale. Fu Ashley Hutchings, bassista dei Fairport Convention e secondo marito di Shirley, a trovare la canzone su una copia manoscritta di Cecil Sharp, il padre del folk inglese. Se il mal d’amore ti strozza la gola, sei condannata al silenzio. La carriera discografica di Shirley Collins si ferma nel 1978 con For as Many as Will. Due anni dopo Ashley Hutchings la lascia per un’altra donna e Shirley perde la voce. «Non ho perso le canzoni, ho perso il canto», dice.
Quando a luglio del 1995 compie sessant’anni, per festeggiare la pensione dà una festa a cui invita anche un fan improbabile e devoto, David Tibet dei Current 93. Dopo averglielo chiesto per vent’anni, l’8 febbraio 2014 Tibet finalmente la spunta e Shirley sale con lui sul palco della Union Chapel a Islington. Erano più di trentacinque anni che non cantava in pubblico. «Nel mondo c’è talmente tanta falsità, finzione e frode, che quando capisci che una cosa è vera, bella e innocente in senso blakiano, ma anche intrisa di esperienza, ti si apre il cuore», dice di lei in The Ballad of Shirley Collins.
Quando nel 2015 ha iniziato a lavorare a Lodestar, si è rifiutata di entrare in studio e ha preteso di registrare a casa sua. Si sentiva troppo vulnerabile per sottoporre le sue fragili corde vocali al giudizio di un ingegnere del suono. Nel piccolo salotto della sua casa di Lewes, circondata da amici musicisti, con umiltà e volontà di ferro, ha ritrovato la voce perduta. Le canzoni, quelle non le aveva mai perse.
Per Heart’s Ease, il nuovo album, è tornata in studio senza allontanarsi troppo da casa, restando nell’amato Sussex. Registrato al Metway di Brighton, contiene brani della tradizione inglese e americana. Barbara Allen è una ballata citata per la prima volta nel diario di Samuel Pepys il 2 gennaio 1666. The Merry Golden Tree e Wondrous Love risalgono al viaggio del 1959 negli Usa: «Le canzoni restano nella memoria per molti anni finché all’improvviso arriva il momento di tirarle fuori di nuovo», dice. Crowlink, il brano di chiusura, porta il nome di un minuscolo villaggio dei South Downs, a un miglio dalle Seven Sisters, il suo luogo del cuore. Shirley canta una strofa accompagnata dalla ghironda di Ossian Brown su un tappeto di elettronica di Matthew Shaw, musicista drone underground inglese, e di field recording realizzati da suo figlio Robert. «Sono una piccola nave fantasma nel Mare di Beaufort, condannata a viaggiare senza sosta, intrappolata nel ghiaccio per cento anni», dicono i versi. «La voce è mixata lontana, un’eco flebile sovrastata dai suoni», mi spiega rispondendo a un messaggio inviato su Facebook. Un finale emozionante per l’album di una cantante e folclorista che durante il lockdown si è consolata ascoltando musica rinascimentale italiana («La trovo così sexy!») e a ottantacinque anni è pronta a lanciare una tradizione plurisecolare verso il futuro. (pubblicato su Il Manifesto del 2 agosto)