Jean-Claude Vannier pensa già all’autunno: il 22 ottobre sarà a Sète a dirigere l’orchestra per il concerto del centenario della nascita di Georges Brassens. Nel 1974 Vannier gli aveva dedicato un album di versioni orchestrali, sostituendo ai versi del poeta le fanfare dell’Esercito della Salvezza avvolte nella bruma londinese, gli organi a rullo che risuonano sul Lungosenna, i cori amatoriali al chiosco dei Giardini del Lussemburgo, un vecchio harmonium in una chiesa di periferia, sospiri zigani catturati su un ponte di Praga, tenora catalano e saltarelli di Spaccanapoli. La valigia degli attrezzi dell’Arrangiatore degli Arrangiatori è piena di sorprese, che questo signore distinto e modesto, autodidatta audace e geniale, ha raccolto lungo la strada da quando a diciotto anni è stato spedito ad Algeri a suonare il pianoforte all’hotel Aletty.
Il suo primo lavoro da arrangiatore è stato Electrode – Martial Solal joue Michel Magne (1966) e «non sapendo niente di musica», ha usato l’orchestra come un bambino in un negozio di giocattoli: solo così si spiegano le accoppiate improbabili tra arpa e grancassa, la tuba in sopracuto e il corno da caccia solista. «Ho sempre amato mescolare strumenti bizzarri, pianoforti rotti, tamburi di cartone, casse di sapone insieme a utensili, sirene, incudini e ai rumori della strada».
Oltre a firmare tredici album a suo nome e una ventina di colonne sonore, Vannier ha collaborato con l’intero pantheon della musica francese. Nel 1969, quando Serge Gainsbourg e Jane Birkin copulano in classifica con Je t’aime moi non plus, lui arrangia il singolo più venduto in Francia: Que je t’aime di Johnny Hallyday. Scomponendo quell’arrangiamento si riconoscono alcuni trucchi del mestiere: gli inserti di batteria frastagliata, secca e pesante, i brevi attacchi di fiati sul tappeto innocente di chitarra spagnola e organo con sentore di Procol Harum, il basso in agguato prima dell’ingresso in pompa magna dell’orchestra, con i fiati sgranati da film noir. Un contrasto di vuoto e pieno, una tensione erotica fra il loop ingenuo e le vampate orchestrali: anche senza i singulti orgasmici di Hallyday, gli arrangiamenti di Vannier sono micidiali stimolatori di ormoni.
Il che ci porta dritti fra le braccia di Melody Nelson, dove quei trucchi raggiungono l’apoteosi in brani come Melody e Cargo Culte. Eppure, a fronte della densa sensualità degli arrangiamenti, Vannier si considera un minimalista. «Detesto i ritmi che non servono a niente e le armonie inutili, sono uno che tende a epurare. Al pianoforte non si ha diritto di suonare con due mani (vedi l’inserto fulminante della sola mano sinistra in L’Hôtel Particulier, ndr), lo stesso vale per la chitarra, mai più di due note alla volta, e la batteria va semplificata al massimo perché detesto i piatti».
Un altro esempio è il coro alla fine di Melody Nelson: canta una sola nota, con le voci che si passano il testimone e riattaccano un mi continuo. Vannier non sopporta quando gli strumenti si sommano e si sovrappongono nelle armonie: non vuole saturare lo spazio, perché ciò lo costringerebbe a mettere qualche strumento in secondo piano.
Quando incontra Gainsbourg nel 1969, Vannier non aveva una grande opinione delle sue canzoni: «Troppo intellettuali, troppo Rive Gauche». Insieme scrivono colonne sonore di film che hanno una caratteristica, «Ils sont nuls». Un giorno Gainsbourg gli dice di avere in mente un disco, di cui ha solo il titolo: Melody Nelson. Per caso il suo giovane collaboratore avrebbe qualcosa nel cassetto? Dans tes tiroirs, sono le parole precise, e per un qui pro quo meraviglioso, dato l’amore di Gainsbourg per i giochi di parole, Vannier capisce méritoires. La profezia di Gainsbourg si avvera: «Tu sarai Cole e io sarò Porter».
Histoire de Melody Nelson nasce nell’aprile del 1970 a Londra, negli studi di Marble Arch, insieme a un gruppo di eccellenti session men inglesi (tra cui Dave Richmond, Big Jim Sullivan, Alan Parker). Con le ritmiche pronte, a Parigi Vannier convoca i musicisti dell’Opéra, scrive le parti di archi, pianoforte, organo, harmonium e i cori con le Jeunesses Musicales de France. In pratica, scrive tutte le musiche anche se sul disco, per ragioni di contratto, il suo nome compare solo su tre brani.
Gainsbourg impiega mesi a scrivere i testi ispirandosi a Lolita di Nabokov e ai sonetti eroici di José Maria de Heredia. Il risultato è una suite di canzoni, un concept album di 28 minuti che all’uscita, il 24 marzo 1971, fu un flop clamoroso. Quando un anno dopo Cole & Porter andarono alla Sacem per incassare i diritti d’autore, si ritrovarono con pochi spiccioli in mano.
Oggi Histoire de Melody Nelson e L’Enfant Assassin Des Mouches, l’album che Vannier scrisse subito dopo, sono dischi di culto. Alla riscoperta ha contribuito il dj e produttore Andy Votel che ha ristampato i dischi di Vannier per la sua etichetta Finders Keepers e nel 2006 lo ha portato al Barbican di Londra, a dirigere i due album con l’orchestra della BBC, molti ospiti illustri e un pubblico estasiato. Un evento replicato allo Hollywood Bowl di Los Angeles (dove Vannier ha incontrato un grande fan, Mike Patton, con cui nel 2019 ha inciso l’album Corpse Flower) e alla Cité de la Musique a Parigi.
Vannier è tuttora molto modesto nei confronti di Melody: «Non so se è un disco bello o brutto, non riesco a giudicare il mio lavoro, non ho idea del perché sia diventato oggetto di culto. Di sicuro internet è stata cruciale, in rete lo potevano ascoltare tutti e io ho cominciato a ricevere email di persone entusiaste che mi chiamavano genio». All’inizio pensava che fosse uno scherzo.
Vannier ama l’opera barocca, è fan di Quincy Jones e Ray Charles, mentre per il rock preferisce gli inglesi. In questo periodo ascolta Thelonius Monk. Ulteriori indizi che non svelano la natura dei suoi «trucchi». Del resto ha sempre detto che quello dell’arrangiatore non è un mestiere, è fare da stampella a chi non sa comporre: in altre parole, è una truffa. Bisognerà credergli, visto che quei trucchi li ha imparati studiando i manuali della collezione Que sais-je?. È davvero possibile diventare arrangiatore studiando un libretto di 128 pagine? No, risponde, ma io ci sono riuscito.