(leggi la seconda parte qui) Che ne sarebbe stato di Enrico Rava senza Gato Barbieri? «Non ne ho idea. È stato il musicista più importante della mia vita. Era la fine degli anni Cinquanta, il mondo del jazz non era come adesso: in Italia di musicisti professionisti c’era solo Nunzio Rotondo, bravissimo trombettista, molto amico di Piero Piccioni, il cui padre era ministro, così aveva ottenuto un programma alla radio. C’era Oscar Valdambrini. Tutti lavoravano con l’orchestra della Rai, accompagnavano i cantanti nei club e nelle balere e si ritagliavano degli spazi per il jazz. Non esisteva il mestiere di musicista jazz, eravamo tutti dilettanti. Io lavoravo nell’azienda di famiglia ed ero molto infelice. Qualcuno portò Gato a un piccolo concerto che avevamo organizzato e suonando con un musicista del suo livello anch’io suonai meglio: ho capito che cosa significava suonare, mi ha dato fiducia».
«Grazie a Gato ho capito che la vita poteva essere bellissima»
Gato mi chiamò per suonare con lui a Roma e da quel momento cambiò tutto. Ho capito che la vita poteva essere bellissima. Senza di lui avrei continuato a lavorare nell’azienda di mio padre che sarebbe sicuramente fallita perché non me ne importava niente e non capivo nulla di cose commerciali. Passavo le notti a suonare e a chiacchierare fino alle 5, fumavamo, poi alle 8 dovevo andare al lavoro. Arrivavo in ufficio, mi chiudevo in bagno e dormivo seduto sul WC. Grazie a Gato lasciai il lavoro e mio padre non mi parlò per quattro o cinque anni». Nonostante la piccola differenza di età, si potrebbe dire che Gato ha avuto una funzione paterna? «Sicuramente è stato un fratello maggiore. Quando me ne andai fu una tragedia. Recuperai il rapporto con mio padre quando lui e mia madre vennero a fare un viaggio negli USA, vennero a cena a casa mia a New York e lui vide che avevo un lavoro e un conto in banca, che non facevo il musicista perché non avevo voglia di lavorare – che è vero – perché volevo drogarmi e svegliarmi tardi la mattina, io che per anni mi sono alzato all’alba per prendere aerei».
In euskera birra si dice garagardoa
Enrico Rava è affezionato a San Sebastián ed è molto affascinato dalla cultura basca e dall’euskera, una lingua che non appartiene a nessun ceppo linguistico e probabilmente è la più antica d’Europa. Gli dico le poche parole che so: kaixo e agur per salutarsi, egun on (buongiorno), ongi etorri (benvenuto), eskerrik asko (grazie), zorionak (auguri). Lui si è appuntato come si dice birra: garagardoa. Il Jazzaldia, dove ha suonato anche con Gato Barbieri nel 2001, ha 58 anni, che equivale all’incirca alla durata della sua carriera. Come riassumerebbe la storia del jazz degli ultimi sessant’anni? «L’ultima grande rivoluzione del linguaggio del jazz l’hanno fatta Ornette Coleman e Cecil Taylor. Da allora in poi non c’è più stato un vero sviluppo del linguaggio jazz, si è metabolizzata tutta la storia del genere, si è recuperata la tradizione di New Orleans immettendola nella musica moderna, si sono semplificate le cose di Ornette, ma non c’è più stato niente di rivoluzionario», dice il maestro.
I geni dalla vita grama
«Sono scomparsi i grandi che hanno inventato il jazz e non sono stati sostituiti da altri», prosegue Enrico Rava. «Oggi il livello artistico è sceso, mentre il livello tecnico e le conoscenze teoriche sono cresciute in modo stratosferico. Ma la magia di quel momento è equiparabile solo ad altre fasi della storia dell’arte come il Rinascimento, o il neorealismo nel cinema: nell’arco di trenta, quarant’anni ci sono stati geni pazzeschi, a partire dal più grande di tutti, Louis Armstrong, poi Bix Beiderbecke, Lester Young, Coleman Hawkins, Charlie Parker, Miles Davis, Dizzie Gillespie, Sonny Rollins. Tanti geni dalla vita grama che hanno fatto cose mai fatte prima, il pubblico ascoltava cose inaudite e si creava una forza incredibile».
«Oggi un musicista come Steve Lehman fa una musica molto difficile, straordinaria dal punto di vista tecnico-teorico, ma non mi emoziona, non mi commuove. Se io oggi avessi 17-18 anni e ascoltassi quel jazz, non mi appassionerebbe e non diventerei un trombettista. Io ho cominciato a suonare la tromba perché avevo centinaia di dischi e perché nel 1956 a Torino vidi un concerto di Miles Davis con Lester Young. Avevo tutti i suoi album, ma non immaginavo che dal vivo mi avrebbe colpito in modo tale. Dopo un paio di settimane ho comprato una tromba e ho imparato a suonarla. Non mi accadrebbe mai con quelli che ci sono in giro oggi».
(questa conversazione con Enrico Rava si è svolta in occasione del Jazzaldia 58 a San Sebastián. L’intervista è stata pubblicata in forma editata su Il Manifesto del 28 luglio 2023 e per intero sul sito)