Nick Cave era già con un piede fuori dalla porta di casa per il tour imminente quando la pandemia ha fermato tutto. Dopo l’iniziale senso di colpa ha tirato un respiro di sollievo: per lui si è aperto un tempo non più scandito da partenze e ritorni e ha sentito una specie di euforia, un’energia folle, un senso di possibilità nato dall’impotenza, in sostanza una liberazione.
A marzo 2020 lui e il giornalista, amico di lunga data, Seán O’Hagan hanno iniziato a telefonarsi: parlavano di questioni esistenziali, dell’arte della canzone, dell’evoluzione e della visione artistica di Nick Cave, tornando sempre al nocciolo incandescente della catastrofe e del cambiamento, sia personale sia universale. Le conversazioni sono continuate anche quando l’attività di Cave è ripresa con i consueti ritmi forsennati. Fede, Speranza e Carneficina (La Nave di Teseo, traduzione di Chiara Spaziani) è una confessione intima e lucida, in cui Cave non si tira mai indietro, nemmeno da quel buco nero che è stato la morte del figlio Arthur nel luglio del 2015, l’evento spartiacque da cui lui e la moglie Susie si sono salvati a vicenda, fino a potersi dire oggi precariamente felici.
CONCEPITO da parte di O’Hagan sul modello delle grandi interviste della «Paris Review», il libro parla molto di religione e spiritualità, di come Nick Cave lavora alle sue canzoni ormai sempre più astratte («Vivere la mia vita dentro una narrazione precisa non aveva più molto senso. Arthur è morto e tutto è cambiato. Quel senso di interruzione ha pervaso ogni cosa»), dell’ansia di iniziare un nuovo disco (evento che programma mettendo la data in agenda), della collaborazione con Warren Ellis, di Anita Lane («Era la più brava tra quelli davvero bravi e meritava di meglio dalla vita»), del rapporto con la moglie («Io e Susie siamo legati essenzialmente dall’amore e dalla catastrofe, ma c’è anche il progetto condiviso del lutto»), delle grandi separazioni artistiche (Mick Harvey, a cui chiede scusa, e Blixa Bargeld, che lo spiazzò con la sua rottura improvvisa), di Ghosteen e Carnage (gli ultimi due album), di come la perdita del figlio non sia un tema ma una condizione.
La salvezza è nel linguaggio: «Per essere costretto a soffrire pubblicamente, dovevo trovare un modo di pronunciare ciò che era successo. Trovare il linguaggio è stato, per me, la via di uscita. C’è una grande lacuna nella lingua che circonda il lutto. È qualcosa a cui non siamo abituati come società, perché è troppo difficile da esprimere e ancora di più da ascoltare. Così tante persone in lutto rimangono in silenzio, intrappolate nei loro pensieri segreti e nelle loro menti, e come unica compagnia hanno proprio coloro che sono morti».
La domanda più frequente che arriva al suo sito «The Red Hand Files» riguarda il dopo: andrà meglio? La risposta è sì. «Il lutto è un luogo comune ordinario come l’amore», dice Cave, un viaggio nell’oscurità da cui si torna portando con sé il sapere, che è anche un’energia ribelle, sprezzante – non cinismo e arroganza – nei confronti della morte e del dolore, perché niente potrà più farti tanto male quanto la morte di un figlio (a parte la morte di un secondo figlio: Jethro, il primogenito, è scomparso a 31 anni nel maggio di quest’anno).
«IL LUTTO mi ha donato un’energia indomita. Mi ha permesso di sentire una forma di invincibilità e di totale disinteresse per l’esito, una sorta di impavido abbandono al destino. Il peggio era accaduto», dice. Eppure il libro è punteggiato da momenti di ordinaria fragilità. Nick Cave non riesce ad alzarsi dal letto prima del tour di Skeleton Tree e si fa aiutare da una nutrizionista via Skype; a Los Angeles va da una guaritrice somatica e scopre che la A che sente nella pancia non sta per Arthur, ma per anger, rabbia; fa il test di personalità dell’enneagramma ed è un tipo 8, come Mick Harvey e Blixa Bargeld, tutti individui con una spiccata tendenza tirannica e un enorme potenziale di conflitto: «È come se Hitler, Stalin e Mao Zedong provassero a registrare un disco insieme», commenta.
C’è ancora il Nick Cave caustico e autoironico, che a proposito della tossicodipendenza dice: «Alla fine sembra che non ci sia altra opzione: ti droghi e ti senti bene, oppure non ti droghi e ti senti malissimo. Non è ingegneria aerospaziale»; che quando va in tour prepara la valigia mettendoci dentro «qualche abito e un paio di flaconi di tinta per capelli», e che a 65 anni è disposto a giocarsi il menisco pur di non rinunciare alle prodezze da rockstar: «Il knee drop è una questione di onore professionale».
ANCHE SE il lavoro e la musica lo hanno salvato, non si identifica più narcisisticamente con quello che fa: «In punto di morte non dirò a mia moglie «Ho scritto The Mercy Seat». Oggi Nick Cave non ha più tempo per il cinismo: «Nella posizione in cui mi trovo, un esplicito rifiuto del divino costituisce un male per chi di mestiere scrive canzoni. Ti mette in una condizione di svantaggio perché restringe le opzioni e rifiuta la dimensione fondamentalmente sacra della musica». Come direbbe il suo idolo Leonard Cohen, Hallelujah! (pubblicato su Il Manifesto del 2 ottobre 2022)