In irlandese ci sono trentadue parole per dire “campo”. Geamhar è un campo di granturco; réidhleán un campo dove si gioca o danza; cathairín un campo in cui vive una fata, e così via. «An Ghaeilge, l’irlandese, è un sistema di comunicazione complesso e misterioso», scrive Manchán Magan in Thirty-two words for field. «È profondamente ecologico e dà priorità alla natura e alla terra più di ogni altra cosa. È la lingua di un popolo che vive da millenni in quelle terre verdi e rocciose sull’Atlantico, e che trasmette una visione magica del mondo naturale e soprannaturale, in cui le parole non solo descrivono le cose, ma hanno il potere di renderle reali».
Non c’è però un modo diretto di dire “ti amo”. «In generale non ci sono verbi per le emozioni», dice la scrittrice Naoise Dolan. «Si può dire “ho paura”, ma non “temo”. La traduzione più vicina a “ti amo” è “Táim i nghrá leat” (sono innamorato/a di te), “mo ghrá thú (sei il mio amore) o “Tá grá agam duit” (ho amore per te)». Quando si digita “I love you”, nei traduttori automatici compare “Is breá liom thú”, ma in realtà significa “I like you” (mi piaci), che come sappiamo non è per niente la stessa cosa.
Il discorso coinvolge in prima persona Anna B Savage, che è inglese ma vive parte dell’anno in Donegal, il lembo nord-occidentale dell’isola. You & i are Earth (City Slang), il suo terzo album, racconta «la sorpresa di innamorarsi, di trovare un amore così facile e semplice che è come trovare casa». Come si scopre in uno dei brani, in irlandese c’è almeno un’altra espressione per dire “ti amo”, che poeticamente fa coincidere l’amore con la musica.
«Il mio ragazzo e io stavamo ascoltando un episodio del podcast Poetry Unbound in cui il poeta Pádraig Ó Tuama spiega che nel dialetto irlandese di Munster “ti amo” si dice “mo cheol thú”, “sei la mia musica”. È una delle frasi più romantiche che abbia mai sentito e dimostra come la musica pervada profondamente la lingua e la cultura irlandesi. È una cosa che, come una gazza, ho rubato e messo da parte, insieme al piatto trovato in una fognatura di Londra».
Il piatto? «Un piatto in maiolica ritrovato intatto in una fognatura di Londra su cui c’è scritto “You & i are Earth, 1661”. Non si sa chi l’abbia scritto e a chi fosse rivolto. L’ho visto alcuni anni fa e mi sono segnata la frase, perché è disperatamente romantica, come il fatto che esista ancora l’oggetto che attesta quella storia d’amore [si trova nel Museo di Londra, ndr]. All’inizio ci ho scritto una canzone, poi ho pensato che fosse il titolo perfetto per l’album. Forse un giorno anche il mio disco verrà trovato in una fognatura e sarà visto come un gesto d’amore».
Perché “Tu e io siamo Terra” è un’espressione d’amore? «Perché l’amore è un sentimento complesso, e può essere anche spaventoso, primigenio, enorme, profondo», risponde. L’amore legato al sentimento di appartenenza alla Terra è in effetti molto potente, fa pensare a un sentimento adulto, maturo, senza melodrammi. Faccio questa riflessione pensando al rapporto di Savage con gli album precedenti: scrivere il primo è stato difficile, perché cercava di trovare un senso in ciò che non riusciva a comprendere (se stessa e le sue relazioni malate). Durante il secondo aveva già fatto psicoterapia, cercava di liberarsi dei traumi e cominciava a vederci più chiaro, ma il vecchio io continuava a risucchiarla in vecchie dinamiche. Il terzo emana vibrazioni completamente diverse: si sente che adesso è in pace con se stessa.
«È proprio questo il motivo per cui mi fa sentire nervosa. È più delicato, tenue, piccolo, contenuto, in modo dolce. Sono contenta che si percepisca il progredire verso una sensazione di contentezza, di soddisfazione, ma allo stesso tempo questa cosa mi spaventa, soprattutto nel mondo di oggi, in cui la soglia di attenzione è molto breve e c’è bisogno di catturarla in tempi rapidi. Invece questo è un disco che ti fa compagnia, richiede tempi lenti, va ascoltato per intero mentre ci si riposa. Non so come se la caverà nell’economia dell’attenzione».
In Mo Cheol Thú il fingerpicking ricorda Nick Drake, uno che aveva problemi a farsi sentire senza amplificazione perfino nel brusio dei folk club e dei pub, figuriamoci nella attention economy. «È il più grande complimento che potessi farmi. Adoro Nick Drake. Quando ero adolescente ascoltavo Pink Moon tutte le sere prima di addormentarmi». È il disco preferito di tutti. Non ti rendeva triste? «No, mi faceva compagnia, mi sembrava di essere con un amico. È perfetto, e ora che ci penso, c’è molta Terra in quel disco. Sole, mare, cielo, piante, aria. Anche quello è un disco che può incutere paura per il suo essere così primordiale, spaventoso, distante, o al contrario confortante».
È curioso che Anna si senta radicata a terra in Irlanda, circondata dall’acqua, l’elemento prevalente di You & i are Earth: il suono delle onde che apre il disco, le lacrime che sanno di mare, il dichiararsi discendente di una famiglia di guardiani del faro – felici in solitudine – e la preghiera di reciproco accudimento rivolta al Donegal, dopo essersi immersa nelle acque gelide dell’Atlantico. Una contea che Savage descrive così: «Drammatica. Scogliere pittoresche che precipitano nell’oceano, montagne che in realtà sono colline. Selvaggia. Il vento piega gli alberi che diventano quasi orizzontali. Inoltre, è un posto dove non ti puoi fare la frangia ai capelli, bisogna poterli legare! [ride] È incredibile quante sfumature di verde ci possono essere nello stesso posto. È un paesaggio piuttosto duro, ma anche molto accogliente e vibrante».
Ti senti a casa in Irlanda? «Credo di avere delle gambe lunghissime: una radice è in Irlanda, l’altra è ancora a Londra. Mi succede di vivere in un posto e sentire di poterci restare per sempre. Ogni luogo fa emergere una parte diversa di me e io amo la parte che viene fuori in Irlanda. Ho un ritmo più lento e dolce, è una versione di me più presente, più ancorata al suolo, come quando si cammina senza scarpe e i piedi affondano nella sabbia o nella terra, e all’improvviso capisci che dovresti sentirti così sempre».
Ogni disco di Anna B Savage mi insegna una nuova parola. In A Common Turn era corncrake, il re di quaglie; in in|FLUX era crown shyness, la timidezza delle chiome, un fenomeno botanico; nel nuovo disco sono le periwinkles (littorine) che raccoglie sulla spiaggia, vicino al cottage di Seamus Heaney. Come le piccole conchiglie dorate emergono dalla sabbia, i dettagli diventano più nitidi a ogni nuovo ascolto di You & i are Earth: le corde della chitarra e le sfumature della voce, di formazione operistica; il lavoro degli archi (Kate Ellis e Cormac MacDiarmada), il «letto di clarinetti» che entra dopo il verso «breathe with me» in Mo Cheol Thú e «porta in un’altra dimensione»; Incertus, il breve e misterioso strumentale che introduce al “secondo lato” del disco (un contrabbasso accordato in un re bassissimo con violino e violoncello che improvvisano sugli armonici).
Ci sono tanti modi di accogliere You & i are Earth: è un compagno durante il buio dell’inverno, stagione introspettiva in cui l’amore può sembrare lontano, perfino impossibile. D’estate, ci porta in luoghi segreti come Bishop’s Pool a Mullaghmore (nella title-track), con la montagna magica di Benbulben alle spalle, nella contea di Sligo, dove W.B. Yeats appoggiava l’orecchio al suolo per ascoltare la voce delle fate. Attenzione, però: se vi perdete in un cathairín, ricordatevi che per rompere l’incantesimo basta indossare un indumento a rovescio. Se invece l’essere soprannaturale dovesse chiamarsi Agnes (come la canzone del disco), allora dite che vi manda Anna dal Donegal. (pubblicato su Il Manifesto del 28 gennaio 2025)